30 anni di Mudhoney: Capitolo 4 – Ritorno alla Sub Pop

Non passa giorno che non ci facciamo prendere dalla malinconia degli anni 90, eppure fu un decennio musicalmente crudele. La maggior parte delle band si sono viste bruciare i loro sogni di gloria dietro ad assurdi contratti, imposizioni folli, tour infiniti, interviste impossibili. Certo, i dischi vendevano milioni e milioni di copie ma guardate quello che successe ai Mudhoney: su Sub Pop erano i re, coloro che dettavano lo standard, addirittura avevano legioni di band ad imitarli. Su Reprise sono praticamente scomparsi, nascosti dall’ombra di artisti più remunerativi e dal costante paragone con i Nirvana. Mark era più brutto di Kurt (per quanto abbia comunque il suo fascino bislacco), le canzoni non avevano la stessa potenza di “Smells Like Teen Spirit” e non si facevano beccare dai paparazzi con qualche modella o qualche rocker sbronza. Una noia per coloro che dalla musica volevano anche qualcosa di sordido da seguire. Poco importa che “Piece Of Cake”, “My Brother The Cow” e “Tomorrow Hit Today” fossero dei super dischi.

Frustrati da questo meccanismo folle i Mudhoney alla fine degli anni 90 si presero una pausa. Lukin se ne andò subito dopo la pubblicazione di “Tomorrow Hit Today” e il contratto con la Reprise non fu rinnovato: sembrava che la carriera della band di Seattle fosse finita per sempre.

Come puntualmente succede dopo lo scioglimento di una band (o la morte di un artista) iniziarono le uscite antologiche: nel 2000 Strange Fruit pubblicò la raccolta delle BBC Sessions, spettacolari ma già piuttosto note tra i fan grazie ai numerosi bootleg, mentre Sub Pop pubblicò l’imponente “March To Fuzz”, doppio CD (o triplo vinile) contentente il meglio della band e tutte le bside. Una vera e propria pietra tombale sulla carriera degli ex Green River.

Quando tutto sembrava finito, a sorpresa arriva l’annuncio che la band è viva e vegeta e che il sostituto di Matt Lukin sarà Guy Maddison, già nei Lubricated Goat e con Mark Arm nel side project Bloodloss. Nel 2000 i Mudhoney tornano quindi in pista e decidono di testare la formazione in tour.

Nel 2002 pubblicano “Since We’ve Become Translucent”, su Sub Pop. Il titolo auto ironico del disco fa capire che i Mudhoney non hanno perso l’invidiabile forma, anzi. L’album è, ad oggi, il loro più sperimentale e variegato grazie a lunghi brani di stampo space rock (“Baby You Can Dig The Light”), consuete citazioni Stoogesiane (“The Straight Life”), riff quasi stoner (“Crooked And Wide”) e fiati impazziti (“Sonic Infusion”). Tra gli ospiti citiamo Wayne Kramer degli Mc5 al basso in “Inside Job”. Come “ritorno” direi che non c’è male e una label medio grande come la Sub Pop sembra essere in grado di gestirli al meglio con promozioni mirate ai fan e non al gossiparo. Curiosamente Mark verrà assunto proprio come direttore del magazzino della label: sappiate che se comprate un disco dalla Sub Pop passerà tra le sue mani!

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Il settimo disco, pubblicato nel 2006 e intitolato “Under A Billion Suns” venne considerato un po’ superficialmente un mezzo passo falso. Erano gli anni dei primi blogger, delle webzine e dello scaricamento selvaggio e tutti avevano qualcosa da dire, anche senza aver mai ascoltato per davvero la band. La label, sempre Sub Pop, annunciò il disco come quello più “politico” della loro carriera cosa che fece partire prevenuti parecchi ascoltatori, soprattutto gli americani. Al di là dei testi critici verso la politica guerrafondaia degli Stati Uniti, il disco è sintonizzato su sonorità anni 70: fiati che spingono, cori soul e riff sculettanti di matrice rock and roll. Non solo Stooges, Blue Cheer e Black Sabbath ma anche Grandfunk Railroad, la Motown e il Jazz, rivisitati con la consueta stravaganza. Era un bello shock per tutti coloro che si aspettavano un gruppo grunge alla Nirvana (ancora? nel 2006? sigh)!

Nel periodo del rock revival (Strokes, Franz Ferdinand, White Stripes) i nostri se ne escono con la loro versione “saggia” e “matura”,  decisamente meno irruenta rispetto al passato. “Under A Billion Suns” non è un passo falso ma uno di lato.

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A 20 anni dall’esordio, per i Mudhoney è tempo di festeggiamenti. Nel 2008 iniziano a piovere le ristampe e i tour in cui ripropongono i primi lavori, il grunge viene di nuovo visto con occhi meno critici, e la band ha di nuovo voglia di divertirsi, esattamente come il loro pubblico che si fa sempre più numeroso e adorante. Dopo una lunga serie di dischi per un pubblico troppo “maturo” i Mudhoney tornano a fare quello che gli riesce meglio: del sano “rock and grunge”.

“The Lucky Ones” è il disco più Mudhoney dai tempi del primo disco omonimo. Non ci sono più influenze esterne, nessun ospite e nessuno strumento oltre al classico “chitarra-basso-batteria-voce”. “The Lucky Ones” è il tripudio del Mudhoney-sound capace di rendere al meglio soprattutto in sede live. La band è finalmente libera di esprimere se stessa facendo quello che sa fare meglio, senza dover dimostrare niente a nessuno, senza dover giustificare la propria presenza nei libri di storia del rock. I Mudhoney vengono considerati degli eroi da una generazione che non vuole scomparire, che si sente ancora giovane e che vuole riprendere a saltare sotto il palco come non fa dalla metà degli anni 90, quando il sogno grunge si spezzò. Con “The Lucky Ones” i Mudhoney riprendono in mano lo scettro di Re della Sub Pop, etichetta che da anni comunica ai giovani grazie ad un roster continuamente aggiornato e che non dimentica di celebrare le gesta della “golden era”.

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Nel 2011 Bang Records recupera il nastro di una registrazione risalente al 1995 di Kim Salmon (leader dei punk Austrialiani The Scientists) con i Mudhoney, intitolato “Kim Salmon And The Guys From Mudhoney ‎– Until….”. Il disco, andato velocemente fuori catalogo, è discretamente raro.

Questa seconda giovinezza, unita alla saggezza di mezza età, ha reso Mark Arm e soci più rilassati e consapevoli dei propri limiti e dei propri pregi.

Passano quindi ben 5 anni tra “The Lucky Ones” e “Vanishing Point”. Anticipato dal divertente singolo “I Like It Small”, la band confeziona un altro disco alla Mudhoney, ricco di canzoni irresistibili e attitudine garage punk. I tempi si mantengono abbastanza serrati e la voce di Mark è più grintosa che mai. Ottima la registrazione, praticamente da major, effettuata ai fidati Studio Litho di Stone Gossard. “Vanishing Point” è un disco pensato per il live dove la band da sempre dà il meglio.

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Non a caso in questi ultimi anni vengono pubblicati più dischi dal vivo che in studio: Live At Third Man Records, On Top! e LiE sono solo gli ultimi della lista. Ma ne parleremo in un capitolo a parte.

Arriviamo quindi al 28 Settembre 2018, giorno della pubblicazione di “Digital Garbage”, disco del trentennale, anticipato dal singolo “Kill Yourself Live“. 

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30 anni e non cambiare di una virgola il sound: in grado di attraversare mode e tormentoni senza che quasi nessuno prestasse attenzione alla loro musica. Eppure gli assoli strampalati di Steve Turner, l’energico drumming di Dan Peters e lo strano senso della melodia di Mark Arm sono ormai un patrimonio dell’umanità. Lo conferma “Digital Garbage” che, pur autocitandosi addosso in più di una occasione, è un disco come solo i Mudhoney potevano fare. 11 brani in poco più di mezzora: la band va dritta al punto. E’ punk, è grunge. Esattamente come in “Superfuzz Bigmuff”, esattamente come in “Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More”. Il bello dei Mudhoney è quello di partecipare ad un campionato tutto loro, in cui alcune volte riescono addirittura a perdere.

“Digital Garbage” è il disco che ci consegna dei Mudhoney compatti e determinati anche se poco vogliosi di stranezze, cosa che rese alcuni dei loro dischi dei classici. 

In 30 anni di carriera la loro storia si può riassumere in : il primo anno hanno inventato un genere, il secondo hanno provato l’ebrezza del successo indipendente, il terzo anno si sono tutti dimenticati di loro. I successivi 27 li hanno vissuti noncuranti di tutto, suonando i tre accordi che adorano, ognuno perso nel proprio personaggio rock and roll. Mark Arm devoto a Iggy Pop, Steve Turner chitarrista nerd grande conoscitore del garage rock americano e Dan Peters inflessibile batterista con una rullata riconoscibile fra mille. Dispiace che non sia più della partita Matt Lukin, l’anima folle e rock and roll, emblema del bassista pazzo. 30 anni e 10 dischi. E per molti saranno sempre e solo ricordati per il loro primo singolo.

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