L’Angolo Della Morte: Le 10 uscite Death Metal più significative di Ottobre 2018

Con Ottobre si entra nell’Autunno, stagione nella quale i metallari, di certo, si sentono più a loro agio: giornate che si accorciano pesantemente, via le ultime tracce di costumi da bagno e sciocchezze del genere, via le abbronzature dalle facce dei conterranei.
E cosa c’è di meglio, durante i primi pomeriggi di maltempo autunnale, se non dedicarsi al vecchio metallo, assaporare nella penombra delle proprie abitazioni le nuove uscite del mese mentre fuori la temperatura si abbassa inesorabilmente e le intemperie incombono?
Niente, ovvio; e allora spero di fare cosa gradita a tutti segnalando quelli che per me sono stati i 10 dischi di maggior interesse in questo primo gradevole mese di autunno.

1 . Unleashed – The Hunt For The White Christ – Napalm Records

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Gli Unleashed sono una band di riferimento per il movimento death metal: sono stati i primi, insieme ai Grave, a modificare il sound tipicamente melodico dello swedish death metal della prima ora in uno stile più possente, duro e stentoreo; gli Unleashed rappresentano i capostipiti della seconda ondata del death svedese e, oggi, continuano ad impressionare per capacità esecutiva e tecnica compositiva.
La band negli ultimi tempi ha abbandonato le origini: oggi gli Unleashed suonano un death metal moderno, improntato al riff duro e potente; sono diventati una delle band di riferimento anche oggi, non tanto dello swedish sound della prima ora, ma del moderno e attuale suono svedese, tipico di band tipo Wombatth e Demonical per citare due uscite del genere di quest’anno, più duro e compatto di quello delle origini.
I maestri salgono sulla loro nave vichinga e la conducono con il piglio del nostromo esperto attraverso la tempesta di riff e cavalcate che, sontuose e possenti, ricamano la loro trama per tutta la durata del disco.
Di fronte a prodotti di tale solidità e intensità non possiamo che toglierci il cappello e apprezzare ogni nota, ogni passaggio e ogni momento in generale del disco.
La produzione moderna è decisamente uno stacco dalle origini: il suono è poderoso e incalzante, lo definirei vivo, il basso altissimo fa un lavoro stupendo e il tappeto messo insieme dalle chitarre definisce lo stile della band, sia a livello compositivo che esecutivo, la batteria accompagna con tecnica e credibile varietà, la voce di Hedlund è, invece, sempre quella, non perde un colpo e dona profondità e atmosfera al disco.
Si prosegue nell’ascolto e si vorrebbe che il disco non avesse mai fine, tanta è la varietà, la potenza e la solidità dei vari brani.
Brani tutti eccellenti, ma il riff tremolante che contraddistingue “Terror Christ” è superbo, l’incipit incalzante di “Lead Us Into War” è da perdere la testa a furia di headbanging, l’oscurità di “They Rape The Land” è fantastica e la doomeggiata iniziale di “The City of Jorsala Shall Fall” da brividi; su tutte, tuttavia, metto l’immenso riff di “Stand your ground”, pezzo migliore di tutto il disco per efficacia, direzione e potenza.
In conclusione, la nave vichinga degli Unleashed continua a solcare i mari del death metal a 30 anni di distanza dal suo primo viaggio narrando le gesta delle guerre che i figli di Odino combatterono in giro per il mondo; e anche questa volta riesce a stagliarsi superba fuori dalla coltre delle nebbie del mare del Nord per regalarci uno degli episodi di classico death metal moderno più ispirato dell’intero anno.

2 . Hate Eternal – Upon Desolate Sands – Season of Mist

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Gli Hate Eternal nascono nella seconda metà degli anni novanta dall’idea del newyorkese Eric Rutan, che, alcuni anni prima, si era trasferito a Tampa, Florida, per suonare death metal con i Morbid Angel.
E nello stile della sua creatura Rutan ha sempre rievocato il sound dei maestri, all’interno della cui formazione ha avuto la capacità e l’onore di suonare; soprattutto nella possente cattiveria dei riff gli HE hanno sempre avuto delle notevoli somiglianze con i Morbid Angel.
Con questo lavoro, tuttavia, la band americana imbocca una strada vagamente diversa, oserei dire definitiva: il disco è davvero bello, potente, ispirato e personale.
Il sound degli HE è frutto di un’evoluzione ormai piuttosto lunga, passata attraverso dischi importanti ed altri meno riusciti: in definitiva, si può definire come un death metal oscuro e veloce, nel quale la fanno da padrone i riff violenti e i blast beats; un death metal caratterizzato dalla feroce ricerca della compattezza, del muro sonoro tirato e direttamente sparato sulla faccia dell’ascoltatore; un death metal che non si preoccupa di melodia e atmosfere ma resta sempre roccioso e convincente.
Che questo disco rappresenti una piccola sintesi di tutta la precedente produzione HE è dimostrato dal fatto che la linea compositiva, pur restando fedele ai principi di violento assalto sonoro tipico della band, deve essere apprezzata con attenzione, non si deve avere la pretesa di digerire il lavoro al primo ascolto.
Da un punto di vista esecutivo, notevole la profondità dei riff e della capacità delle chitarre di creare degli stacchi melodici davvero interessanti, sontuoso il lavoro della batteria e la sezione ritmica del basso sempre ispirata; molto bene Rutan alla voce, come al solito; pezzi migliori: la antica “Nothingness of Being”, la rocciosa opener “The Violent Fury”, la devastante “What Lies Beyond” e la ritmata, poderosa fantastica title track che è, per me, l’episodio più riuscito di tutto il prodotto.
Insomma, un gran bel disco death metal, furioso ma allo stesso tempo ben ragionato, condito da una produzione chiara ma capace di non celare il caos sonoro calcolato tipico del sound della band.
Gli HE con questo prodotto si collocano tra le band più in forma del movimento, i nostri sono in un momento compositivo eccellente nonostante la produttività piuttosto massiccia che li contraddistingue negli ultimi anni.
Sono contento che Rutan sia riuscito a dare un’identità alla sua creatuta facendola diventare un punto di riferimento tra le band americane che arrivano da lontano e ancora in attività; soprattutto perchè il combo, in alcuni lavori di un decennio fa, si era un pò perso, aveva dato alla luce un paio di dischi (“I, monarch” e “Fury and flames”) poco convincenti, monotoni e improntati ad una violenza di maniera molto consumistica e poco orchestrata.
La storia della band ha avuto, in seguito, episodi migliori, dai quali era già evidente che Rutan e i suoi avevano trovato la giusta via da percorrere; oggi, con “Upon Desolate Sands”, i ragazzi di Tampa giungono al loro traguardo compositivo, definiscono la loro particolare tipologia di death metal.
E noi ascoltatori non possiamo fare altro che goderci beati questo disco di furioso, violento, ragionato e maturo death metal.

3 . Psycroptic – As The Kingdom Drowns – Prosthetic Records

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I fratelli Joe (chitarre) e David (drums) Haley varano il settimo album della loro creatura Psycroptic, dopo che tre anni sono passati dall’ultimo eccellente disco del gruppo australiano proveniente dalla regione più piccola e remota del Quinto Continente, ossia l’isola di Tasmania.
Nonostante la maggior parte dell’isola sia disabitata, i nostri, nella capitale Hobart, riescono sempre a reperire nuovi adepti dediti al tech-death, ed ecco che nella formazione del presente cd troviamo un nuovo bassista che svolge il suo compito alla perfezione.
Completa il quartetto l’ormai consolidato singer Jason Peppiat.
Premetto subito che il prodotto è non solo meritevole, a me è piaciuto tantissimo.
I Diavoli della Tasmania sono in grado di creare un compatto muro di suono, incentrato sul susseguirsi di riff furibondi, blast beats crudeli, up tempos inarrivabili per precisione e potenza, passaggi complicati eseguiti con perizia chirurgica.
La parte più interessante della musica degli Psycroptic sta nella capacità del presente disco di non limitarsi ad essere un ottimo prodotto di death metal tecnico: i nostri trovano il modo di dare energia e profondità alla loro musica, varietà e chiarezza alla composizione dei vari pezzi anche attraverso l’inserimento di alcuni mid tempos perfettamente disegnati e di una potenza da scardinare la testa dal collo.
Il lavoro dell chitarre è supersonico: la potenza del riffing non ha accenni di indebolimento in nessuna fase del disco, la chitarra ritmica è sempre attenta a disegnare la traiettoria del pezzo con un’anima rock che rende la musica viva e non soltanto incentrata sulla ricerca della tecnica esasperata; il basso è sempre presente e regala una ritmica capace di reggere i pezzi anche nelle fasi più furibonde, nelle quali la batteria del maggiore dei fratelli Haley si lancia in classici e furibondi blast beats; un accenno alla voce di Peppiat che è molto caratteristica, una specie di urlo asfissiante che risulta chiaro, senza essere mai minimamente melodico, e potente senza essere piatto.
Tra i pezzi che ho preferito, metterei la devastante “Frozen Gaze”, la violentissima “We Were The Keepers”, il mid tempo poderoso della title track e la massacrante “Upon These Stones”.
In conclusione, album da non perdere, nel quale i deathsters della Tasmania riescono nell’intento, non facile per niente, di abbinare la tecnica chirurgica del tech-death con l’anima del classic death, senza eccedere in un eccessivo compiacimento per le proprie capacità esecutive, ma essendo capaci di metterle al servizio della fruibilità del prodotto per tutti gli ascoltatori del genere, anche i più esigenti.

4 . Outer Heaven – Realms Of Eternal Decay – Relapse

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“Realms of Eternal Decay” è l’esordio da parte degli Outer Heaven, band della Pennsylvania che ha catalizzato la mia attenzione.
I nostri appartengono al nuovo filone di gruppi death metal americani amanti dei suoni caotici e aggressivi, da un lato ben saldi nel rievocare il sound che ha fatto grande il death metal in passato e dall’altro attenti ad esplorare nuove frontiere musicali.
Ne esce un prodotto intrigante, nel quale si alternano furiose sparate impreziosite da un massiccio uso di blast beats stile primi Morbid Angel e parti tipicamente doom/sludge nelle quali i ragazzi di Dougsville riescono a creare atmosfere mortifere e putrescenti.
La produzione volutamente sporca sembra, ad un ascolto poco attento, mascherare le ottime capacità esecutive della band: batteria perfetta, chitarre ispirate e soprattutto grande lavoro del basso registrato in modo moderno e ben udibile.
Difficile trovare dei termini di paragone precisi: nel disco si trovano alcuni accenni agli Autopsy (specialmente quelli di “Mental funeral”) e a certe band europee tipo Konkhra e secondi Gorefest nelle quali le sonorità quasi hard core si mischiavano col vecchio death metal.
Lo scopo degli OH è quello di fare male e ci riescono per bene: il sound sempre possente, anche nelle parti più ragionate, sa diventare sporco e cattivo senza essere scontato.
Tra i pezzi migliori segnalo la furiosa “Tortured Winds”, “Echoes from Beyond” e soprattutto “Pulsating Swarm” che passa dall’incipit tipicamente doom alla furia assassina del prosieguo.
Un plauso particolare alla voce del singer che sa essere espressiva, malata e sofferente.
In sintesi, un disco che in qualche modo ha il coraggio di ricercare e trovare una propria personalità, un disco che in sostanza potrebbe piacere a tutti i deathmetallers, sia quelli alla ricerca del solito devastante massacro, sia quelli dediti ad ascolti più sobri e ragionati.

5 . Bloodbath – The Arrow Of Satan Is Drawn – Peaceville Records

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Bloodbath sono un supergruppo svedese promotore da sempre di un sano old school death metal incentrato sul sound grattante swedish.
Ma se i nostri hanno vissuti episodi più moderni, con il presente disco sono tornati indietro di 30 anni in un colpo solo: nessuna volontà di rendere il prodotto moderno, ricerca della violenta velocità con riff assassini e parti cadenzate (molto riuscite) che si alternano, con notevole prevalenza delle prime.
Il risultato non è nulla di eccezionale ma si fa sentire: la voce di Nyberg strizza l’occhio al black ed è forse il lato meno riuscito del disco insieme alla vena creativa del songwriting praticamente pari a zero.
Intendiamoci, il risultato è apprezzabile e la violenza del suono notevole, tuttavia il presente disco è forse meno interessante di altri episodi (ormai parecchi) firmati in passato dal combo svedese.
Chitarre furiose, basso inesistente, batteria rullante dedita al più sontuoso dei tumpa tumpa, voce volutamente cadaverica: la ricetta funziona anche se manca il pezzo memorabile e tutto l’insieme scivola via piuttosto piatto e ripetitivo.
Il disco è solido, la vena melodica quasi assente e particolarmente sinistra, l’intento dei nostri è diretto e finisce per cogliere nel segno; tuttavia, ho ascoltato dischi dei Bloodbath più ispirati a livello compositivo, meno scontati.
Tra i pezzi migliori, la opener “Fleischmann”, la possente “Levitator” e la più varia e cadenzata “Only the dead survive”.
Nel complesso un disco che si fa sentire, veloce e tirato, senza troppi intoppi e senza particolari difetti, ma che fatica a lasciare il segno.
Consigliato a chi segue la band e non intende perdersi alcun capitolo della saga e a coloro che cercano riff tremolanti lanciati a velocità degne di nota, meno a chi si aspetta un lavoro paragonabile ai precedenti o a chi è alla ricerca di uno stile di death metal moderno che, anche se capace di strizzare l’occhio al passato, abbia la forza e il desiderio di virare verso sonorità diverse.

6 . Morbid Messiah – Demonic Paroxism – Memento Mori Records

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Morbid Messiah sono una band messicana che arriva all’esordio dopo un EP dal titolo “In the name of true death metal”: direi che c’è poco da aggiungere.
Non siamo di fronte ad una band tipicamente messicana: i MM non hanno la cavernosa brutalità di alcune sordide creature conterranee tipo i Cenotaph o la gratuita aggressività thrash-horror di altre band messicane più moderne tipo Nocatmbulism o Infernal Conjuration, nè tanto meno si avvicinano al sottogenere più presente nel Tricolor, ossia il vecchio brutal senza compromessi e accenni di novità.
I MM suonano un classico death metal delle origini, con una vena thrash che li avvicina ai primi Sepultura o ai Possessed: brani quasi sempre brevi e scontati nella loro direzione, ma piacevoli, ben costruiti e suonati senza la grezza attitudine delle band da cui derivano (cosa che oggi renderebbe il prodotto assai poco interessante) ma con una certa tecnica e attenzione al riff come è giusto che sia per una band moderna, che ha potuto prendere esempio e spunto dal passato e correggerne gli errori o le eccessività tipiche dei neofiti.
Non credo che qualcuno potrà mai citare questo disco per originalità o per qualche altro motivo, credo però che i messicani siano stati capaci di mettere insieme un prodotto onesto e concreto, dotato di un sound personale, molto macabro e putrescente che esce dalle chitarre crude e cattive, dalla voce rozza e malata e da una batteria disumana.
Mi ripeto, nulla che trascenda l’ordinario, ma fatto bene e con una commovente attenzione al rispetto dei canoni del genere cercando di adattarli ad un sound più moderno, al passo coi tempi.
Tra le canzoni migliori, indubbiamente il mid tempo di “Howling from the grave” emerge dal resto, ma non sono affatto male neppure “Crawling in guts” e “Fetid bloodbath”.
Nulla di nuovo sotto il sole, ma chi avesse intenzione di ascoltare un prodotto di old school death metal collocato nella seconda metà degli anni ottanta potrebbe essere soddisfatto dal lavoro messo insieme dai nostri amici messicani, un lavoro serio, coerente e tutto d’un pezzo.

7 . Barus – Drowned –  Memento Mori Records

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Il movimento francese partorisce questo interessante disco di esordio in vena progressive, prodotto dalla sempre attenta label spagnola Memento Mori, ormai un punto di riferimento per le uscite underground in tema di death metal.
Premetto che il genere suonato dai nostri non è di mio totale gradimento ma non posso esimermi dal segnalare un lavoro che ha tutti gli skills per emergere dalla densa nebbia del progressive, dove la maggior parte delle bands finisce per essere talmente complessa da non permettere alle mie rozze orecchie deathmetalliche di esprimere giudizi positivi.
I Barus invece riescono a combinare in modo più che credibile il classico death metal (ci sono parti puramente death, da headbanging furioso) con il black metal, il doom e lo spirito progressive.
I musicisti ci sanno fare: a partire dal cantante che ci regala un ottimo ed espressivo growl, proseguendo con le chitarre e il basso (registrato molto alto a differenza di quanto accade in molti prodotti death classici) e finendo con la drumming session.
La linea compositiva dei pezzi è varia e convincente, complessa senza diventare noiosa: in questi prodotti crossover non è inusuale che, all’interno della stessa song, convivano parti molto differenti l’una dall’altra; la scommessa che i Barus riescono a vincere è quella di suonare i loro pezzi senza scollature, collegando in maniera credibile le varie anime presenti all’interno dell’album.
Il disco è certamente un prodotto di nicchia, duro in certe parti e mortifero in altre, macabro e allo stesso tempo aggressivo.
I ragazzi hanno classe e trovo corretto segnalare il loro sforzo, anche se questo tipo di death metal non incontra i miei gusti e probabilmente non riprenderò tanto facilmente in mano il disco in futuro.
Le due canzoni che mi sono piaciute di più sono “Gaze” e “Benumb”, nelle quali lo stile della band trova le sue migliori espressioni.
Nel complesso siamo davanti ad un lavoro di assoluto valore, ma che non suscita il mio entusiasmo: non dipende dai Barus che, anzi, meritano tutta la nostra attenzione e considerazione per avere avuto il coraggio di sviluppare in modo eccellente le proprie idee creative e per averle tradotte in una musica convincente ed eseguita con maestria.
Purtroppo nella valutazione di un band o di un disco subentrano i gusti personali, le proprie attitudini e le proprie aspettative: purtroppo, non ho una particolare predilezione verso prodotti di questo tipo che inevitabilmente finiscono per restare, a mio modo di vedere, un pò fini a se stessi.
Credo che il valore del disco resti, lo spirito dei nostri debba essere apprezzato, ma mi chiedo quanti siano gli appassionati che non preferiscano un lavoro più diretto, magari da ascoltare ripetutamente senza troppi pensieri a questo genere di death metal, affascinante e innovativo, ma anche terribilmente complesso e, alla fine, un pò indigesto.

8 . Ruin – Human Annihilation – Memento Mori Records

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Basta il nome della band, aggiungete se volete il logo e la copertina del disco per essere sicuri, e saprete ancora prima di ascoltare la musica a cosa siamo davanti.
I nostri giungono tra noi dalla California con tutta l’intenzione di rievocare i bei tempi andati con il loro sound manifesto dell’old school.
Il cd segue l’esordio dello scorso anno che avevo apprezzato e che, chiaramente, era del medesimo tenore del presente prodotto.
Ma i Ruin non sono una band nuova: i ragazzi californiani hanno fondato il combo nel 1990 e, dopo pochi anni di attività che hanno lasciato ai posteri una scarna produzione underground, si sono sciolti per poi rinascere nel 2015.
La musica segue la storia della band: è come se il quintetto californiano avesse ripreso le fila del discorso esattamente dove lo aveva lasciato, non so per quale motivo i nostri siano stati inattivi per più di 20 anni.
Tuttavia, oggi, sono tra noi e suonano il vecchio death metal con il piglio dei maestri di allora: nessuna originalità o innovazione, nessuna ricerca di sonorità diverse come accade per le band giovani dedite alla vecchia scuola.
Riff potenti e con la tipica atmosfera marcia dell’horror death metal di un tempo (molto Autopsy per trovare un degno paragone), batteria veloce, cambi di tempo azzeccati e ben orchestrati, voce screameggiante che arriva dal profondo.
Come dal profondo cuore del vecchio death metal arrivano i Ruin e sono capaci di orchestrare un prodotto che ha qualcosa da insegnare ai giovinastri di oggi, magari più tecnici e precisi ma a volte incapaci di sentire nel sangue il movimento di allora.
Unica differenza rispetto al death metal maturo dei primi novanta è la produzione: i californiani scelgono un suono sporco, che finisce per rendere meno intelliggibile il lavoro sontuoso delle chitarre.
Maestri del riff, i Ruin incentrano tutta la loro musica su questo aspetto: il vecchio, sano, putrido riff death metal.
Non so per quale motivo i nostri non abbiano fatto uscire questo prodotto nei nineties; ho come l’impressione che i pezzi esistessero già da allora, hanno quel sound che capita di ascoltare in ristampe di lavori dimenticati o negli originali di un tempo.
Chissà… Magari se i nostri avessero avuto modo o voglia di andare avanti, oggi forse potrebbero essere un nome più famoso all’interno del movimento, una delle tante band che allora fecero grande il death metal.
La musica underground è fatta anche da quelle band che magari non assurgono al rango di celebrità, ma che hanno ottenuto una certa notorietà solo per il fatto di esserci state.
Per i Ruin non è stato così: forse in questi anni i cinque componenti della band si sono barcamenati nelle loro vite, lontano dalla saletta di registrazione; magari, mentre svolgevano le loro normali attività, però, non hanno mai dimenticato gli anni in cui erano i Ruin e suonavano death metal.
Oggi, questo cd rende onore a dei musicisti autentici, figli del vero old school death metal, capaci di riprendere in mano gli strumenti dopo tanto tempo e donarci un prodotto che non passerà alla storia per essere arrivato con più di due decadi di ritardo, ma che merita di essere ascoltato da tutti quelli che amano il death metal.
Un album lungo più di 20 anni, un album che rappresenta lo spirito di questa musica particolare, che entra dentro all’anima degli appassionati e non li abbandona mai, per tutta la vita.

9 . Aseptic – Murderous Obsessions – Narcoleptica Productions

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Uscita interessante: band californiana di San Josè composta da membri di origine ispanica (garanzia di ancoraggio pesantissimo alla brutalità vecchia maniera) che trova la sua ispirazione in quel old school thrash/death in cui i pezzi tendono tutti ad assomigliarsi e che incentra la propria musica sull’assalto frontale, senza compromessi.
Poco più di 30 minuti di pezzi molto brevi (il più lungo arriva a mala pena a 3 minuti) nei quali i nostri mettono in mostra chiarezza compositiva, furia esecutiva e nessuna intenzione di stupire con novità particolari.
Ne esce un disco che non posso evitare di consigliare a chi dal genere si aspetta solidità e violenza: il sound ricorda in parte quelle band trash di una volta che andavano veloce e basta (tipo i Vio-lence o i primi Terrorizer) senza tuttavia mai sfociare nel grind; le influenze death metal ben evidenti mi riconducono a band antiche (ci ho sentito i Cadaver, underrated band norvegese dedita ad un death metal crudo e primitivo ma suonato con tecnica e ispirazione; o qualcosa dei secondi Napalm nella capacità di andare direttamente al punto).
Difficile individuare dei pezzi in un contesto che deve essere gustato tutto in una volta, senza preoccuparsi più di tanto di stare attenti a scovare il riff indimenticabile, la cavalcata coinvolgente o il passaggio particolarmente significativo; tuttavia, ho trovato, al quarto/quinto ascolto più accorto, più massacranti di altre “Anatomized”, “Incurable insanity” e la title track.
Non devo aggiungere altro: la piccola label russa Narcoleptica Productions ha deciso di stampare in cd un lavoro che i nostri, unsigned, avevano fatto uscire soltanto in versione digital, concedendo così la possibilità a qualche persona in più di poter apprezzare il lavoro degli Aseptic.
Non fatevi problemi, buttate il cd nello stereo e rilassatevi: in questi 30 minuti di musica non troverete alcuna risposta ai vostri dubbi esistenziali, ma soltanto del sano e ben orchestrato massacrante death/trash metal della prima ora.

10 . Behemoth – I Loved You At Your Darkest – Mystic Productions

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Tanta acqua è passata sotto i ponti da quando Nergal ha creato i Behemoth: i polacchi sono stati una delle prime band ad uscire dai paesi che stavano dietro la cortina di ferro e raggiungere una certa notorietà all’interno del movimento; ai tempi suonavano un black metal rude e sparato con ampie deviazioni in territorio orchestrale e chiare influenze da Bathory ed Emperor.
Nel tempo, i Behemoth hanno modificato il loro sound mantenendo intatta una sola caratteristica di base: la blasfema ricerca della brutalità più cattiva.
Il presente disco inizia con una intro nella quale un coro di voci infantili se la prende con l’Onnipotente (questa deriva blasfema gratuita è francamente ridicola) e ci conduce alla prima song del disco dalla quale si capisce subito che lo smalto non è quello dei giorni più belli.
Il problema è che i Behemoth sono stati capaci di creare un proprio particolare sound, a cavallo tra il death (per ricerca del riff in parte mid-tempo in parte veloce e del lavoro della batteria) e il black (al quale appartengono di più la voce di Nergal e l’orchestralità di alcuni passaggi).
Nel complesso il disco non è male e ci regala pure una canzone sontuosa in perfetto stile Behemoth, “Ecclesia diabolica cattolica” (sigh), oltre ad altri due pezzi bellissimi con “Wolves ov Siberia” e la cadenzata e poi violenta “Havohej pantocrator”.
Tuttavia, a livello generale, il disco appare un pò stanco, tende un pò ad annoiare: i nostri si divertono a complicare le cose volendo dimostrare di essere dei musicisti sopraffini (ed è vero) e avere idee che il resto del panorama metal si può sognare (vero pure questo sotto certi aspetti); alcuni passaggi sono davvero noiosi, inutili (come il lungo e stucchevole inizio di “Bartzabel” ad esempio), certe digressioni violente un pò scontate seppur ben eseguite, gli stacchi e i cambi di tempo non regalano sempre varietà ma a volte appesantiscono (prendiamo ad esempio sempre “Bartzabel”, canzone che se ascoltata a pezzetti sembra eccellente ma sentita tutta insieme ha poco ritmo: un bel riff violento indovinato viene subito spezzato da un intermezzo semiparlato davvero inutile e troppo lungo che fa perdere il filo della song).
Le parti orchestrali o piacciono o non piacciono: a me non piacciono ma il giudizio è personale; la mia semi-bocciatura del disco non deriva da questo, sono abbastanza oggettivo da capire e sapere che i Behemoth non suonano la musica degli Autopsy o dei Deicide; deriva piuttosto dalla complessiva scollatura del prodotto e dalla scarsa ispirazione compositiva.
Il precedente “The Satanist” aveva rasentato la perfezione, lo avevo trovato tagliente e sentito al punto giusto; forse i Behemoth hanno solo incontrato un momento di difficoltà o, come tutte le grandi band, sono alla ricerca di modificare costantemente il proprio sound. Credo che tutto possa essere vero, ma mi sento in dovere di esprimere il mio giudizio: penso che semplicemente queste band ne abbiano sempre meno e, nel caso di musicisti di spessore come i Behemoth, finiscano per comporre pezzi che sanno stare in piedi ma non sono in grado di colpire nel segno.
Se il death metal diventa un lavoro perde il suo spirito di base che è quello di essere suonato per il piacere di farlo, per raggiungere un numero limitato di appassionati e diventare famosi per aver composto un pugno di canzoni in tutta la carriera.
I Behemoth sono in questo vortice compositivo, anche se la loro grande classe va apprezzata e non si può negare che il lavoro sia ampiamente sufficiente e si faccia sentire.
Tuttavia, finito di ascoltare il disco, metterò su il vecchio “Sventevith, Storming near the Baltic”, cd che ai tempi comprai appena uscito dando fiducia a quel gruppo di ragazzi dell’underground polacco che, oggi, sono dei musicisti di livello e probabilmente non pensano più a quando il vento dell’est da loro portato spirava più freddo e cattivo sulle rive gelide del Baltico.

Non ti perdere le puntate precedenti dell’ANGOLO DELLA MORTE!

Redazione

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