I migliori 60 dischi femminili del 2018

Chissà se in futuro vedremo il 2018 come l’anno in cui le donne hanno preso consapevolezza di loro stesse.  Merito del nuovo mondo “social” che aiuta le donne a fare gruppo, sia per scambiarsi informazioni sia denunciando soprusi e malefatte, e soprattutto aiuta ad avere maggiore visibilità. L’intrattenimento di massa vede sempre di più protagoniste femminili: nei film, nelle serie televisive, nello sport e nello spettacolo. In musica sono decine i dischi realizzati da donne (in solitaria o in band) che meriterebbero un posto in classifica fra i migliori dell’anno.

Lo sapete che attualmente le donne sono le maggiori acquirenti di chitarre? Questo denota un interesse totale verso la musica: non solo ascoltata (e le donne si dimostrano molto più sensibili e attente rispetto agli uomini) ma anche suonata. Questa che state per leggere non è quindi una lista “ghetto” : potete tranquillamente sostituirla a quella dei migliori dischi dell’anno, senza che sentiate la mancanza di uomini! E’, pur essendo voluminosa, una lista parziale dei dischi più interessanti pubblicati da donne: ci siamo soffermati oltre che sulla musica anche sulle loro storie e le loro personalità, e fondamentalmente l’insieme delle tre cose è stato l’elemento di scelta. L’ordine è più o meno casuale (salvo alcuni collegamenti diretti) per stimolarvi a leggere e ad ascoltare tutto, senza preferenze di generi, etichette e autori. Se volete una colonna sonora di accompagnamento ecco la nostra playlist di Spotify: all’interno troverete tutte le nostre scelte.

Tierra Whack – Whack World (UMG)

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Tierra Whack è una giovane rapper di Philadelphia che da qualche anno pubblica brani su brani sul suo account Soundcloud. All’inizio di quest’anno se ne esce con “Whack World” un disco “multimediale” dalla durata di 15 minuti e formato da 15 brani. No, non si tratta di un violentissimo disco grind ma di una raccolta di canzoni “black”: hip hop, soul, elettronica e sperimentalismi si accavallano l’uno sull’altro come fossero storie di Instagram e Facebook, associate da geniali videoclip realizzati da 
Thibaut Duverneix e Mathieu Léger. Dopo i 78 giri, i 45 giri, gli LP, i CD e gli mp3 questa è senza dubbio un nuovo modo di sfruttare i formati per fare musica. E che musica!

Julien Baker, Phoebe Bridgers, Lucy Dacus – Boygenius (Matador)

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L’anno scorso furono Kurt Vile e Courtney Barnett a far impazzire il mondo indie, quest’anno tocca alle Boygenius, progetto nato per supportare il tour delle tre cantautrici più hype degli ultimi mesi: Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus. Insieme hanno composto un EP di 6 pezzi a cui non possiamo chiedere niente di più, niente di meno. 20 minuti di carezze ed emozioni, con canzoni che rientrano perfettamente nello stile delle tre cantautrici. Sarebbe bello che in futuro il progetto trovasse forma e carattere con un disco vero e proprio, alla Crosby, Still, Nash & Young! 

Marie Davidson – Working Class Woman (Ninja Tune)

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La Canadese Marie Davidson esordisce su Ninja Tune con il quarto album “Working Class Woman”. Marie, già nel duo Essaie Pas, realizza un personale e conturbante viaggio nell’elettronica moderna, ma senza trascurare anche sonorità datate come “italo disco” e “electroclash”, trasformandolo in una sorta di diario di tour. Un disco personale (e infatti non troppo capito dal grande pubblico a cui una label come Ninja Tune si rivolge) e stimolante, spesso disturbante nei suoni e nelle tematiche.

War On Women – Capture The Flag (Bridge Nine Records)

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They don’t care if you live/They don’t care if you die/It’s only ever been about control” cantano nell’iniziale “Lone Wolves”, invettiva contro armi e Donald Trump . War On Women sono una band “hardcore” politicizzata  e femminista, formata da 3 ragazze e due maschietti. Nel brano “YDTMHTL” troviamo Kathleen Hanna delle Bikini Kill ai cori, in evidente sintonia con i Bostoniani arrabbiati. Il sound è un punk metallizzato piuttosto orecchiabile, nella tradizione delle band che vogliono far arrivare chiaramente e al più ampio numero di persone possibile il proprio messaggio di guerra.

MaidaVale ‎– Madness Is Too Pure (The Sign)

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Vi abbiamo già parlato delle MaidaVale nello speciale dedicato alle rocker Svedesi e ne torniamo a parlare grazie al disco “Madness Is Too Pure” pubblicato a Marzo del 2018. Esistono così tante band “heavy psych” con voce femminile che spesso l’ascoltatore ne ha già piene le scatole ancora prima di schiacciare play, ma per le MaidaVale il discorso è completamente diverso. Intanto sono una band interamente femminile e proprio per questo suonano dannatamente sincere, non sono alla ricerca del successo solo perchè hanno una frontwoman magnetica ma suonano un ipnotico rock psichedelico semplicemente perchè adorano farlo. E si sente! I loro brani innescano un lisergico corto circuito cerebrale talmente forte che sembra di sentire l’odore di incenso uscire dalle casse. Da non perdere anche il precedente “Tales Of The Wicked West”.

Grouper – Grid Of Points (Kranky)

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Dopo quattro anni di silenzio (interrotti nel 2016 dal singolo “Paradise Valley” e nel 2017 dal brano “Children”) torna la misteriosa e sfuggente Grouper , ovvero Liz Harris. In origine impegnata in droni ambient, negli ultimi dischi ha via via rilassato la sua proposta: in “Grid Of Points” Liz confeziona una manciata di bozzetti sonori al pianoforte registrati in un volontario isolamento nel Wyoming. Inutile dire che, pur breve (20 minuti), “Grid Of Points” è un disco di classe. Malinconico ed etereo, ricorda i momenti più introspettivi di Lisa Germano.

Emma Ruth Rundle – On Dark Horses (Sargent House) 

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Troppo spesso vista come la sorella minore di Chelsea Wolfe, Emma Ruth Rundle in “On Dark Horses” conferma la formula vincente inaugurata con “Some Heavy Oceans” (2014) e sviluppata in “Marked For Death” (2016). Con una vocalità e un’intensità che ricorda le migliori ballad anni 90, Emma scrive e interpreta brani in grado di trasportare l’ascoltatore in lidi eterei grazie al sapiente uso delle atmosfere. L’esperienza passata come chitarrista in band post rock (Red Sparowes e Marriages) fa la differenza: riverberi, delay e distorsioni sono usati per costruire strati sonori al servizio della bella e malinconica voce. “. 

Thunderpussy – Thunderpussy (Stardog)

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Lanciate dal chitarrista dei Pearl Jam Mike McCready le Thunderpussy sono un quartetto hard rock di Seattle completamente femminile. Chi conosce i gusti di Mike, ascoltando l’esordio omonimo, non si stupirà del “patrocinio”: le canzoni omaggiano Led Zeppelin, Deep Purple, Rolling Stones, il glam rock e in generale tutto l’hard rock anni 70, evidente fin dall’artwork del disco e dal logo della band. Ma attitudine e influenze non servirebbero a niente senza le canzoni e le Thunderpussy non ci fanno mancare nemmeno quelle:  “Speed Queen”, “Torpedo Love” sono degne di entrare in heavy rotation nelle radio rock del globo. Molto probabilmente rimarranno un fenomeno di nicchia: non sono belle, non stupiscono con tecniche circensi e non hanno testi impegnati. E proprio per questo sono 100% Rock. Curiosità: per l’occasione è stata rispolverata l’etichetta Stardog, in origine fondata per i Mother Love Bone e successivamente usata per Ugly Kid Joe, Animal Bag e Greta. 

Anna Von Hausswolff – Dead Magic (City Slang)

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Il quarto album della Svedese Anna Von Hausswolff è un disco non facile: brani lunghi, atmosfere claustrofobiche e sperimentalismi assortiti. Ma chi avrà il coraggio di farsi largo in questa sorta di jam fra Swans e Diamanda Galas scoprirà un’artista che attualmente non ha eguali come manipolatrice di materiali sonori oscuri. Non è black metal ma “Dead Magic” ha la stessa intensità e capacità di disturbare. Prodotto divinamente dal guru dell’oscurità Randall Dunn


Anna Burch – Quit The Curse (Polyvinyl)

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Anna Burch, dal Michigan, precedentemente nei Failed Flowers e nei Frontier Ruckus, esordisce in proprio con un buon disco di canzoni pop. Se  i media hanno dedicato distrattamente tempo a “Quit The Curse” giudicandolo fondamentalmente “buono ma inutile” nel nostro piccolo ridiamo visibilità ad un disco che è la summa dell’indie pop degli ultimi 20 anni con qualche tuffo addirittura negli anni 60. L’indole un po’ triste e malinconica rende questa collezione di canzoni (che supera di poco la mezzora) più adatta alle giornate uggiose che a quelle di sole. O a momenti in cui ci si sente col cuore spezzato e bisognosi di una coperta calda.

Marissa Nadler – For My Crimes (Sacred Bones / Bella Union)

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Marissa Nadler sta esattamente a metà tra le cantautrici oscure come Chelsea Wolfe e Emma Ruth Rundle e quelle più folk come Sharon Van Etten e Angel Olsen (entrambi ospiti nel disco). Allo stesso tempo fa un po’ storia a sè: perchè tra le nere vesti e le atmosfere alla David Lynch c’è tanto folk alla Neil Young,  Townes Van Zandt e Elliott Smith. Dopo quasi 10 dischi in altrettanti anni si può tranquillamente dire che Marissa è una delle migliori songwriter di questa generazione. 

Mary Lattimore ‎– Hundreds Of Days (Ghostly International)

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Per creare “Hundred Of Days” l’arpista Mary Lattimore (già collaboratrice di Kurt Vile, Sharon Van Etten, Marissa Nadler, Thurston Moore, Jarvis Cocker) si è isolata in una casa vittoriana con la fedele arpa, una chitarra elettrica, un pianoforte, un theremin, un sintetizzatore e la sua voce. Con questi ingredienti Mary realizza da sola un disco affascinante nel tratteggiare una felice solitudine e un appagamento dei sensi tra ambient, classica e ambientazioni cinematografiche. 

Vouna – Vouna (Artemisia)

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Vouna è la band di Yianna Bekris che nel suo disco d’esordio suona tutto: chitarra, synth, batteria, basso, flauto e voce. Per registrare l’album è andata nel bosco secolare di Portland dove si trova lo studio/comune dei Wolves In The Throne Room, titolari dell’etichetta Artemisia. Ne viene fuori un disco definito “Cascadian Blackened Funeral Doom” (Cascadian perchè viene dalla regione della Cascadia, area geografica compresa tra lo stato di Washington, l’Oregon e la British Columbia Canadese), ma che in realtà suona meno deprimente di quanto la definizione voglia farci intendere. Intanto all’interno c’è parecchio folk e le ritmiche non sono così soffocanti come nel “funeral”, almeno non sempre. Un lavoro “artigianale” consigliato a chi ama il black metal un po’ freakettone e chi vuole qualcosa di più “underground” di Myrkur.

Nita Strauss – Nita Strauss (Pelagic Records)

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In una lista che include folk, country, pop, elettronica, black metal non può mancare anche lo shredding, ovvero l’arte del virtuosismo chitarristico sulla falsa riga di Joe Satriani e Steve Vai. Nita Strauss si è fatta notare come chitarrista delle Iron Maidens entrando quindi nella band di Alice Cooper. Ma nelle sue corde c’è di più: il suo disco omonimo mette in mostra una virtuosa della chitarra che si diverte ad ogni nota (e vi assicuro che ne fa tante!!). Fra un riff metalcore tamarro e uno più thrash old school la Lita Ford del 2018 (o forse sarebbe meglio dire The Great Kat. Chi se la ricorda?) si esibisce in scale vertiginosissime che testimoniano l’amore di Nita verso dischi che ormai non si fanno più e verso uno strumento a cui dedica tante ore di esercizio quotidiano.

Courtney Barnett – Tell Me How You Really Feel (Milk! Records)

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Dopo l’acclamatissimo esordio “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit”, nel 2017 l’Australiana Courtney Barnett ha fatto coppia con Kurt Vile con un disco che ha spopolato tra gli indie-kids. Merito della massiccia promozione su ogni possibile canale musicale possibile (televisivo, youtube, social, webmagazine ecc) ma anche della manciata di canzoni irresistibili contenute al suo interno. Dopo neanche un anno Courtney pubblica “Tell Me How You Really Feel”, vagamente più intimista ma sempre sbilenco come solo lei sa essere. Un disco che va ascoltato a più riprese proprio a causa del carattere stropicciato che probabilmente apprezzeranno di più i nostalgici fan del grunge che quelli dell’indie moderno.



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