Mondo Metallo, la scena islandese

Quale paese meglio della Terra dei Ghiacci avrebbe potuto essere il primo capitolo della rubrica Mondo Metallo? Un paese lontano, popolato da poche centinaia di migliaia di persone, un paese nel quale la natura è sempre stata matrigna crudele (come descritta in tempi lontani da Giacomo Leopardi nel suo stupendo cantico “Dialogo tra la natura e un islandese”).

L’Islanda è una terra inospitale di montagne, valli, cascate, ghiacci perenni, iceberg, vulcani e paesaggi infiniti; la bandiera islandese, ispirata alla croce dei vecchi dominatori danesi, riprende la natura dell’isola, il blu dello sfondo rappresenta il cielo, mentre le due croci, bianca e rossa, simboleggiano rispettivamente la neve e il fuoco.

Ma l’Islanda è anche la terra dei suoi abitanti, alti e biondi discendenti dei vichinghi, persone sorridenti e socievoli, amanti della loro isola e della natura che la contraddistingue; gli islandesi sono l’ultimo popolo al mondo a non chiamarsi per cognome, credono che, con loro, sull’isola, viva un popolo nascosto che chiamano Hiddenfolk, un popolo di gnometti invisibili che fanno le stesse cose degli umani, un popolo che li protegge dalla natura matrigna e dal gelo delle lunghe notti invernali; in cambio, ogni islandese costruisce nel giardino della propria casa una copia esatta in miniatura della propria abitazione, con tutti i dettagli e con tutto l’arredamento: in queste casette, abitano gli gnomi, lì trovano rifugio per difendersi dai rigori del freddo e per ripararsi dalla neve.

Ma ai nostri fini, l’Islanda interessa soprattutto per la sua scena musicale estrema, da sempre scarna e particolare, una scena estrema che è caratterizzata per una forte propensione per il black metal che da queste parti ha trovato, soprattutto in anni recenti, terreno fertile; il death metal è sempre stato poca cosa ma ha regalato alcune perle passate alla storia.

Ma è inutile dilungarci troppo nelle introduzioni, spazio alla musica.

LA SCENA DEATH METAL

Parlare di scena death metal per l’Islanda forse è eccessivo: le bands dedite al metallo della morte da queste parti si contano sulle dita di due mani dagli anni novanta ad oggi; forse sarebbe più corretto parlare di alcuni interpreti, protagonisti della scena, alcuni personaggi che hanno catalizzato attorno a loro gli sforzi produttivi di una comunità piccolissima, concentrata nella capitale Reykjavik e nei suoi dintorni (dove in effetti vive circa il 90 % della popolazione dell’isola).

E così, un certo Gisli Sigmundsson, alla fine degli anni ottanta, decise di dedicare la sua vena creativa ad un genere che, in quel periodo, stava proliferando nelle “vicine” lande nordiche europee e nell’altrettanto “vicina” America, il death metal.

Gisli e l’amico Gaui Ottarson crearono un combo destinato, a loro insaputa, a passare alla storia come l’unica proposta death metal targata Islanda di quel periodo e, soprattutto e con meriti forse esorbitanti il reale valore della musica composta, ad essere destinato a diventare una band culto, le cui uscite sono uno degli esempi più nitidi di underground ricercato nella cerchia ristretta di coloro che ascoltano death metal.

Gisli e Gaui crearono i Sororicide, bruta e malevola entità deathmetallica purissima che uscì addirittura nel 1991 con un full lenght, “The Entity”, un disco che resta ad oggi l’unico prodotto dalla defunta casa discografica Platonic, elemento che ha forse accresciuto l’aurea di mistero e devozione che circondano la band.

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“The Entity” fu seguito da alcune uscite minori, un paio di split con band altrettanto ignote, prodotti pressoché introvabili che appartengono alla mia bacheca (insieme ad una delle 1000 copie originali del full lenght) per motivi del tutto casuali.

Pur essendo uno dei pochi ad avere la fortuna (se così si può definire) di conoscere la produzione dei Sororicide, non sono un loro potente sostenitore, ritengo che il culto che riguarda la band sia assolutamente immotivato: i nostri suonano un bel death metal, a cavallo tra sonorità tipicamente swedish ma con più di uno sguardo alla tecnica aggressività della East Coast americana, ma nulla di indimenticabile.

Probabile che la curiosa provenienza geografica dei nostri sia servita a far crescere il mito che circonda la band e a far lievitare fino a cifre insensate il valore della loro scarna produzione originale.

Tutto è possibile, fatto sta che i Sororicide sono una delle tante band di allora che sono passate alla storia per sempre: negli anni, dopo lo scioglimento della sua creatura, il vecchio Gisli ha provato a dare nuova linfa al movimento death islandese dedicandosi ad altri combos che ebbero poca fortuna e dei quali non resta alcun ricordo produttivo.

Fino al giorno in cui Gisli, nel bel mezzo della prima decade del nuovo millennio, non ha rivolto la sua attenzione ad un drappello di giovanotti dediti al death metal che, data la differenza di età, vedevano probabilmente in lui una specie di santone del genere nell’ambito della minuscola scena islandese.

Mi immagino serate di bevute nei clubs della capitale, prima che i nostri riuscissero a dare vita a quello che è il più importante gruppo death metal islandese di sempre, i Beneath.

Gisli, dopo il primo album varato dai nostri, ha abbandonato il suo posto dietro al microfono, lasciando spazio alle nuove leve; non conosco il motivo dell’uscita dalla band di colui che, insieme all’amico Gaui, in ogni caso, sarà per sempre l’uomo che ha introdotto il death metal nel regno dei ghiacci.

I Beneath, a differenza dei fratelli maggiori Sororicide, sono andati avanti, hanno prodotto altri due dischi e, oggi, sono sotto contratto con l’importante label di settore americana Unique Leader: sono usciti dall’underground al quale, invece, apparterranno per sempre Gisli, Gaui e i Sororicide.

I ragazzi di Reykjavik stanno catalizzando attorno a loro un certo movimento: i Beneath suonano un pregevole death metal tecnico che trova ispirazione nei primi Suffocation e in band moderne come i Dying Fetus pur essendo meno violenti e più ragionati.

I membri della band hanno dato vita ad alcuni progetti paralleli, dei quali segnalo i classic death metal Severed (bene l’unica uscita giunta tra noi, ossia l’EP “Songs of decomposition”) e gli Ophidian I dediti ad un death tecnico stile Beneath anche se meno brutale.

E’ evidentemente difficile per il death metal islandese uscire dall’underground: i soli Beneath ci sono riusciti, ma propongono una musica derivativa da sonorità che non hanno niente da spartire col proprio paese di origine o con i paesi nordeuropei che più si potrebbero accomunare con la cultura islandese.

Nella terra dei ghiacci non è mai esistito un vero e proprio movimento e, di conseguenza, non si è creato un vero e proprio sound tipico per il death metal proveniente dalla remota isola atlantica.

Considerata la connotazione americanoide dei Beneath, credo che, oggi, l’unica band islandese che possa essere considerata espressiva di un death metal di stampo europeo siano i pressochè ignoti Narthraal, provenienti dalla cittadina di Hafnafjordur (periferia di Reykjavik, da visitare per la presenza di un sontuoso museo dedicato alle navi vichinghe).

Stiamo parlando di una band giovane che suona un death metal di stampo swedish (il disco si chiama “Screaming From The Grave”, una delle tracks ha il titolo “Dismember The Entombed”, manca il riferimento testuale agli Unleashed ma direi che è chiaro dove siamo diretti) e che è stata notata dalla finlandese Inverse Records che ne ha prodotto il cd di esordio: mi rendo conto che soltanto coloro che, come il sottoscritto, non si accontentano di frequentare i salotti del death metal ma devono andare a vedere cosa c’è anche nelle soffitte e negli sgabuzzini, possano trovare di un qualche interesse questo genere di prodotti.

Tuttavia i Narthraal sono giovani (nati tutti nei nineties), suonano un death metal di stampo scandinavo in una nazione che non ha mai avuto grande propensione per questo genere di musica pur essendo, di fatto, limitrofa per varie ragioni alla Scandinavia e, soprattutto, lo fanno con una certa potenza e con capacità compositive ed esecutive interessanti: un ascolto al loro prodotto potrebbe essere una buona idea.

In conclusione, se vi capitasse di visitare l’Islanda ricordatevi di lasciare anche del cibo fuori dalle case in miniatura per le cene dell’Hiddenfolk; chissà se Gisli Sigmundsson ha lasciato una delle poche copie dei dischi della sua mitica creatura Sororicide nella piccola abitazione costruita nel giardino davanti a casa sua.

Magari, se lo avesse fatto, la musica dei Sororicide potrebbe essere suonata da una band in miniatura, di folletti dai capelli lunghi e vestiti col chiodo borchiato.

Sono storie da islandesi, un popolo che abita un’isola di ghiaccio in mezzo all’oceano, un popolo che crede davvero che esistano gli gnomi.

LA SCENA BLACK METAL

La scena black metal islandese è frastagliata e ricca di band (alcune, per la verità, con giusto all’attivo un paio di demo o poco più). Potremmo definirla una sorta di underground ben caratterizzato all’interno del calderone underground mondiale. Dal punto di vista stilistico ingloba alcuni elementi death metal (soprattutto per il lavoro delle chitarre, alcune parti vocali e la struttura articolata delle canzoni), forti influenze derivate dal black metal francese di inizio millennio, ma non mancano mancano affinità con il black metal grezzo, basilare, ma ricco di pathos dei primi anni novanta. A questo, si aggiungono momenti di psichedelia, derive drone/ambient, tracce di dark folk. Se vi calerete nelle profondità scavate da questo manipolo di musicisti finirete comunque per riconoscere un marchio di fabbrica piuttosto ben definito.

Gli albori della scena metal estrema islandese sono racchiusi in una compilation datata 1997 dal titolo “Fire & Ice: An Icelandic Metal Compilation” uscita in cd per la sconosciuta Videosafnarinn. Un calderone con dentro un po’ di tutto: dal grindcore, al black metal, al viking metal. Scorrendo i nomi dei gruppi salta all’occhio il nome dei Solstafir.

Parliamo probabilmente della più famosa (post)metal band islandese anche se ormai il loro viking black metal degli esordi ha lasciato spazio ad un post-rock di ottima fattura e meritevole di più di un ascolto per chi scrive.

Un altro nome da estrapolare dalla compilation a suo modo significativo per gli sviluppi della scena è quello dei Thule, divenuti poi Potentiam e arrivati a pubblicare il primo full lenght dal titolo “Balsyn” nel 1999 per l’etichetta italiana costola di Avantgarde, Wounded Love Records. Il disco rimanda ai bei tempi andati: produzione basilare, lavoro perfettamente equilibrato tra chitarre zanzarose e tastiere a formare un tappeto gotico e a guidare per lunghi tratti il disco, voce lamentosa e prevalenza di mid tempo. Un disco che ricorda i primi Dimmu Borgir.

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Un black metal volto più a creare atmosfera che ad un assalto sonoro puro e semplice. La band ha pubblicato un secondo album nel 2004 e ha fatto poi sostanzialmente perdere le sue tracce (anche se non risulta sciolta) probabilmente perché tre dei suoi quattro membri sono confluiti nei Kontinuum tutt’ora attivi e dediti ad una forma decisamente più moderna di progressive post- black metal evoluta sino ai nostri giorni in un post rock debitore alle sonorità anni 80, in un’evoluzione cara a band come i norvegesi Ulver.  L’ultimo lavoro della band è uscito nel 2018 per Season Of Mist e si intitola “No Need To Reason”.

Da una costola dei Pontentiam, nascono anche i Curse la cui ultima fatica discografica risale al 2011 (“Void Above, Abyss Below“, Schwarzdorn Production). I Curse si sono guardati bene dall’avvicinarsi a sonorità progressive o post rock e suonano un black metal grezzo che ha come faro guida i primi Darkthrone, pur non facendo gridare al miracolo.

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Un’altro gruppo che ha fatto parlare di sè nei primi anni 2000 sono stati i disciolti Mykr, nella cui line up troviamo il batterista dei già citati Potentiam e H.V Lyngdal, altro personaggio cardine del movimento islandese di oggi (lo ritroveremo dopo); la band divenne “famosa” per dei live letteralmente insanguinati e ha pubblicato un unico album “Icons Of The Dark” (2003, Ketzer Records) in cui troverete un black metal totalmente debitore alla scuola scandinava degli anni 90. A loro modo divennero un piccolo di culto degli anni zero.

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L’ultimo nome da estrapolare dalla compilation del 1997 è quello dei
Forgaður Helvitis dediti ad un grind/black metal anni 90 in tutto e per tutto. I Napalm Death che incrociano gli Impaled Nazarene: tumpa tumpa furibondo, riff rubati alla band di Birmingham, voce sguaiata e ritmiche strampalate. Al basso troviamo il futuro bassista dei Beneath, ma il bello di ricordare una band che risulta fondata nel 1991 è verificare come anche nella remota Islanda tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90 qualcosa stava succedendo e nuovi generi di metal stavano nascendo.  Il loro unico album è uscito nel 2002 (“Gerningaveður“, poi ristampato nel 2007) e per l’occasione fu prodotto anche un videoclip.

Se quella che abbiamo appena visto potrebbe essere considerata un po’ la prima ondata di gruppi, arrivando ai nostri giorni la scena è sicuramente più strutturata, competitiva, professionale e ricca di band interessanti. Il black metal islandese è stato “tributato” più volte dal Roadburn festival a cui hanno partecipato in varie annate diverse band; per l’edizione del 2018 è arrivata la specifica richiesta di comporre musica da proporre esclusivamente al festival olandese, per un progetto che ha coinvolto Misþyrming , Svartidadudi, Wormlust e Naðra in un’opera dal titolo “Sól án varma“.

Un bell’input alla crescita del panorama musicale dell’isola è stato dato anche dato due etichette:

Vanagandr, specializzata soprattutto in cassette, con la quale hanno pubblicato almeno un’uscita band come  , Misthyrming e Sinmara e Oration Records responsabile anche dell’organizzazione dell’Ascension Festival, una tre giorni di metal estremo prevalentemente islandese (ma non solo) che si tiene nel cuore dell’isola; chissà che non diventi uno degli appuntamenti di culto dei prossimi anni per i metallari di tutto il mondo.

Un altro festival, più trasversale come generi proposti, ma ugualmente molto interessante, è l’Eistnaflug che si tiene a luglio.

Proprio l’Eistnaflug ha visto le prime celebrazioni della Ulfsmessa una sorta di concerto/rituale messo in atto da vari membri delle band appartenenti alla scena, arrivato anche sul palco del Roadburn nel 2016 (edizione che vedeva non a caso i Misþyrming  come artisti residenti).

Una delle etichette che più ha creduto in queste band non è però islandese, ma, guarda caso, norvegese; si tratta di Terratur Possesions a cui va il merito di aver pubblicato molti dei dischi di cui parleremo.

Una scena come si deve non può mancare del suo studio di riferimento e ovviamente lo troviamo nella capitale Reykjavík; lo Studio Emissary è il luogo dove sono stati registrati e prodotti la gran parte dei dischi che seguono.

Il proprietario dello studio è anche uno dei riferimenti di tutto il movimento ed è, a sorpresa, un irlandese, ovvero Stephen Lockhart, in arte Wann, a capo anche dell’etichetta Oration nonché all’opera come musicista nel suo progetto solista Rebirth of Nefast, avviato dopo lo scioglimento dei Myrkr; Lockhart annovera anche svariate collaborazioni e risulta ex membro di Sinmara e Wormlust.

La band che ha un po’ acceso la miccia sono stati gli Svartidaudi, con il loro “Flesh Cathedral”  (2012, Terratur Possessions) quattro lunghe tracce che scoprono il sipario sull’isola. Un disco costruito su tormenti dissonanti e furiosi come “The Perpetual Nothing” con una voce filtrata quasi gutturale, strozzata più vicina al death metal che al classico screaming black a cui si avvicinerà di più nel secondo lavoro. Un album che non fa prigionieri e non dà tregua. Il coperchio è saltato e la scena black metal islandese si presenta al mondo.

Gli Svartidaudi hanno confermato il loro status di grosso calibro lo scorso anno con “Revelations Of The Red Sword” (2018, Van Records): un capolavoro di black metal, dissonante e intricato (lo trovate nella classifica dei migliori dischi black metal dello scorso anno). Le cifre stilistiche rimandano ai Deathspell Omega ma anche agli Aosoth per le parti più tirate e caotiche e la band ci trascina in un gorgo che ricorda quelli della loro terra natia. Il chitarrista Þórir Garðarsson suona stabilmente anche nei Sinmara ed è solo la prima collaborazione di un intreccio piuttosto complicato se non impossibile da seguire; eppure anche tra i black metallari islandesi non sono mancate diatribe tra varie fazioni, altro elemento a suo modo indispensabile per creare il giusto hype. 

Le radici ben piantate nelle fondamenta della scena le hanno anche i Wormlust che hanno pubblicato il loro unico album nel 2013. “The Feral Wisdom” (Demonhood Productions) è un disco di feroce black metal fuso a lunghi ed oscuri passaggi dark ambient il tutto condito da una visione psichedelica e folle che ricorda alcune cose finlandesi (Oranssi Pazuzu).

La band nasce sulle spalle di H.V. Lyngdal (che avevamo incontrato nei seminali Myrk) ma in passato si è valsa della collaborazione anche del già citato Wann.

Continuando il racconto come fosse un domino, vediamo che accanto a Lyngdal nei Wormlust c’e’ il batterista Bjarni Einarsson presente anche nei Sinmara. Nati come Chao, i Sinmara hanno cambiato nome dopo il primo EP pubblicato per Terratur e sono così arrivati ad “Aphotic Womb” (2014, Terratur Possessions). Lo stile del loro esordio sulla lunga distanza non si discosta molto dal black metal dissonante e oscuro degli Svartidaudi con qualche apertura melodica in più e un po’ più di slancio epico. La band ha appena pubblicato il nuovo album “Hvísl Stjarnanna” su Van Records.

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Da una costola dei Sinmara nasce il progetto di black metal atmosferico Almyrkvi che ha sin qui pubblicato il solo full lenght “Umbra” (2017, Van Records).

Sempre nel 2014 arriva “Null & Void” (Pest Productions, Vanagandr) degli :  un’ulteriore sfumatura alla lettura del black metal islandese, un concentrato di drone/doom e metallo nero. Riffoni ripetuti allo sfinimento, slabbrati e pesanti, incedere lento, voce salmodiante alternata ad un cantato strozzato al confine tra lo sludge più marcio e il back metal. Anche gli stacchi più veloci mantengono una sorta di purezza cerimoniale. Il disco ha un potere evocativo notevole e si snoda lungo un’unica traccia di 34 minuti pregni di intensità e che difficilmente lasceranno indifferenti. Anche in questo caso praticamente tutti i membri del gruppo suonano in altre band. Questo rimane uno dei dischi migliori usciti dall’isola in questi ultimi anni.

Nel 2015 salgono alla ribalta i Misþyrming con “Söngvar Elds Og Oreiðu” (Terratur Possessions).  La band composta da giovani virgulti è da tenere bene d’occhio. Il loro black metal si snoda su binari più classici, meno death oriented e con trame meno intricate. Qui le armi d’assalto sono velocità furiose, riff assassini e mid tempo oscuri. All’attivo hanno un unico ottimo full lenght e uno split con i Sinmara. La loro fama si deve anche delle performance live dall’impatto fisico notevole.

I progetti paralleli che nascono intorno ai Misþyrming  sono molti; ci sono i Naðra e i Grafir, entrambi di casa Vanagandr; i primi sono autori di un furioso black metal e hanno esordito nel 2016 con il disco “Allir Vegir Til Glötunar“), mentre i secondi suonano un punk black metal meravigliosamente grezzo ed efficace, ma sono fermi ad un unico EP dal titolo “Úr Ofboði Oværunnar” del 2015. Poi i Carpe Noctem (con due album all’attivo per l’italiana Code 666 Records)  e infine i Martröð, progetto che nasce dalla collaborazioni tra artisti di vari paesi tra cui il batterista dei Blut Aus Nord Thorns ed il prezzomolino Lyngdal che sin qui ha pubblicato un unico EP nel 2016 sulla norvegese Terratur.

Arriviamo al 2016 che vede invece l’esordio discografico degli Zhrine con “Unortheta” (Season Of Mist):  una band che cerca il suo marchio di fabbrica tra il post-black metal, soprattutto per i chiaro-scuri e alcune intro ai brani, ed un’impostazione vocale quasi death (ma è da lì che la band arriva quando si chiamavano Gone Postal). Alla fine i richiami più forti sono ad alcuni gruppi di death avanguardista tipo i Gorguts con trame intricate che alternano classiche sfuriate a rallentamenti sospesi. Nel black metal il punto di riferimento potrebbero essere i Deathspell Omega che come avete capito sembrano aver lasciato una grossa influenza sulla scena islandese.

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La componente più melodica ha avuto il suo momento di gloria nel 2017 con l’uscita di “Farvegir Fyrndar” (Season Of Mist) degli Auðn finito anche nella nostra classifica dei migliori dischi black metal di quell’anno. Maestose melodie per un un black metal atmosferico al suo meglio. Gli Audn sono un po’ al di fuori della scena più true e dalle faide vere o presunte tali di cui si legge in giro, ma la loro musica merita sicuramente.

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Arrivati ai nostri giorni, meritano una menzione i Vetur, una band un po’ fuori dagli schemi fin qui citati, autori di una black death metal di matrice svedese molto ispirato ed è del 2018 il loro bellissimo disco dal titolo “Nætur“; la band vede protagonisti musicisti storici della scena e una piccola chicca è che il loro primo EP è stato pubblicato da una piccola label delle isole Far Oer, la Tutl Records.

I Kaleikr hanno invece appena pubblicato su Debemur Morti il loro disco di esordio dal titolo “Heart Of Lead“, un disco di black/death metal progressivo che farà parlare di sè.

Infine chiudiamo con i NYIÞ: una scena musicale così ricca di pathos, spiritualità e capacità evocativa, non poteva mancare di un collettivo misterioso che faccia un po’ da guida spiriuale. I NYIÞ (di cui non conosciamo i membri, ma è facile immaginare arrivino dalle varie band citate) vanno ben oltre il black metal; siamo nel drone, nella psichedelia più sperimentale, nel dark folk, sembra a tratti di ascoltare musica tibetana, musica ritualistica, estrema ed affascinante. Sono i veri cerimonieri del rituale Ulfsmessa citato prima; la loro pubblicazione più recente è lo split “Caput Mortuum” con gli Old Burial Temple (australiani e devoti grosso modo agli stessi dei), uscito lo scorso anno e la loro scarna discografia è composta per lo più da registrazioni in presa diretta effettuate durante le cerimonie.

Come ultimo spunto su questa incredibile scena musicale, vi segnaliamo il libro “Svartmalmur: Icelandic Black Metal”  uscito a maggio 2018 e curato dal membro dei Wormlust e fotografo Hafsteinn Viðar Ársælsson. Un libro fotografico (con anche stralci di testi di canzoni) che mette in luce l’enorme importanza della componente visiva per questo tipo di musica e per questi musicisti (questo il link se siete interessati all’acquisto).

LA SCENA DOOM / STONER

Come è ormai chiaro a questo punto dell’articolo la scena heavy Islandese è composta principalmente da band black metal ma una piccola risacca heavy psichedelica è presente anche tra i ghiacci. I primi a muoversi nella scena stoner furono i Brain Police, con un nome ispirato a Frank Zappa e sonorità prese di peso da Fu Manchu e Kyuss. La band si formò nel 1998 ed esordì nel 2000 con l’album “Glacier Sun”. Brain Police nella loro carriera riuscirono farsi notare dal pubblico locale e dagli appassionati rocker in giro per il mondo tanto da convincere l’americana Small Stone a ristampare il catalogo (composto in tutto da quattro album usciti tra il 2000 e il 2007). I Brain Police sono una band totalmente derivativa ma esattamente come gli svedesi Dozer (con cui condivisero uno split) vanno apprezzati e ammirati per aver portato il caldo deserto in posti glaciali.

A portare avanti la tradizione “desertica” dei Brain Police troviamo i Churchhouse Creepers, classica band da party stoner selvaggio. Non a caso il loro unico disco (uscito nel 2015) si intitola “From Party to Apocalypse”. Se amate lo stoner rock carico di riff ed energia elettrica (alla Truckfighters) non potete perderli.

Molto più doom i Black Desert Sun: riff lenti e ribassati, voce femminile e tanto fumo sono gli ingredienti di questa band di Reykjavík che, purtroppo, ha pubblicato solo il disco d’esordio omonimo nel 2016. Tra Kyuss, Electric Wizard, Black Sabbath e Windhand.

I Godchilla andrebbero citati anche solo per il nome favoloso ma in realtà meritano anche musicalmente: sludge hardcore alla Eyehategod, Weedeater, chiuse post rock e tanto doom “groovoso”. All’attivo hanno un paio di dischi: l’ultimo, “Hypnopolis”, è uscito nel 2017.

Rimaniamo in territori “mammut” con i Morpholit che nel 2018 hanno pubblicato lo straordinario “Void Emission”, iconico fin dalla copertina raffigurante amplificatori sommersi da fiamme verde acido. Doom alla Bongripper, Conan, Monolord, ovvero quello adattissimo a fracassarvi le casse dello stereo con riff belli ribassati.

Decisamente più psichedelici e rumorosi i Skelkur i bringu, scoperti grazie ad una performance per la radio di Seattle KEXP registrata in Islanda. Due dischi in catalogo (l’ultimo è Þrífðu Þetta Hland del 2017) adatti più agli amanti delle sonorità noise e heavy psichedeliche.

Gli amanti del grunge “heavy” (alla Alice in Chains) saranno contenti di conoscere i Keelrider, quintetto con i piedi ben piantati nella stagione delle canzoni depressive ed epiche provenienti da Seattle. Ovviamente rimaneggiate con un piglio più heavy/doom (quasi alla Acid Bath). Un solo EP di sei canzoni per i Keelrider, pubblicato nel 2018. Attendiamo con curiosità il full length.

Terminiamo con la band meno di nicchia della “scena”: The Vintage Caravan. Messi sotto contratto da giovanissimi dalla Nuclear Blast, in virtù della loro incredibile capacità di maneggiare la materia hard rock, il terzetto ha pubblicato tre ottimi dischi di retro rock psichedelico, derivativo ma molto appassionato e assolutamente non caricaturale. L’ultimo “Gateways” è uscito nel 2018.

Articolo a cura di: Scena Death Metal – Apparizione79; Scena Black Metal – Francesco Traverso; Scena Stoner Doom – Massimo Perasso

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