L’Angolo Della Morte: Le 10 uscite Death Metal più significative di Settembre 2018

Dopo il meritato riposo estivo, a settembre, le case discografiche hanno ripreso a pieno ritmo a far uscire i prodotti dei loro sodalizi e noi appassionati non abbiamo potuto fare altro che ringraziare.
In particolare, attivissime la Metal Blade e la Century Media che piazzano una serie di colpi di altissimo livello (Monstrosity e Revocation la prima, Deicide, Krisiun e Aborted la seconda): di fronte a tali colossi è difficile reperire altri lavori che possano competere, anche se, come al solito, sono riuscito a trovare alcune chicche direttamente dall’underground in grado di farlo a pieno titolo.
Non mi dilungo più di tanto e lascio spazio alla classifica di settembre 2018.

1 . Monstrosity – Passage of existence – Metal Blade

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Il tappeto di doppia cassa con cui si apre la prima song del disco ci fa comprendere da subito che i Monstrosity non hanno intenzione di fare prigionieri e, a distanza di più di dieci anni dall’eccellente “Spiritual apocalypse”, uno dei migliori album death metal del nuovo millennio per il sottoscritto, ci donano un seguito di immenso valore.
“Passage of existence” è un sontuoso disco death metal, classicamente ispirato alle band dalle quali i Monstrosity hanno derivato la propria musica: Death, Obituary, Cannibal Corpse e Malevolent Creation; ma con la capacità e la classe di creare il proprio caratteristico, inconfondibile sound: i Monstrosity si riconoscono subito, death metal puro, senza fronzoli ma con una resa particolarmente violenta e con sonorità che sfociano nella thrashosità, riffs lenti che si alternano a (ben più presenti) parti sparate, doppia voce che passa dal growl principale allo scream di sottofondo.
Nel presente lavoro ci sono tutte le caratteristiche della musica dei Monstrosity, band che, dopo il passaggio del proprio singer e fondatore “Corpsegrinder” Fisher ai Cannibal Corspe, sono stati capaci di restare insieme e continuare a sfornare la propria musica con risultati sempre eccellenti.
In questo album, i nostri sanno cosa fare dall’inizio alla fine: sono una delle poche band che arrivano dal passato che non hanno fatto evolvere il proprio sound verso un compiacimento delle proprie capacità tecniche, i Monstrosity buttano sul piatto tutte le loro fiches sapendo benissimo di puntare dritti a quei deathmetallers come il sottoscritto che non si aspettano nulla da un buon disco se non che abbia la sua sana e vecchia anima death metal; così le chitarre sparano riff e assoli a ripetizione, il lavoro del basso è eccellente, il drumming sempre ben impostato e preciso, il cantato espressivo e violento; anche alcuni intermezzi melodici ci stanno bene, staccano i pezzi veloci con cura e capacità di rievocare quelle atmosfere tipicamente death metal del passato.
Quando ascolto il loro esordio del 1992 “Imperial doom” sento nel disco quell’atmosfera che non so descrivere a parole: il death metal era già affermato quando i Monstrosity sono arrivati tra noi e credo sia questo il punto di forza della band, aver saputo catalizzare tutto il buono che era uscito in quegli anni lasciando da parte l’inutile, saper andare veloce dando credibilità anche alle intros tra una song e la successiva.
Bene, “Passage of existence” riesce nell’intento: è un disco di death metal compiuto, con una produzione moderna e una tecnica esecutiva perfetta, ma anche con un’atmosfera vintage non malinconica ma terribilmente chiara e riuscita.
Concludo segnalando i pezzi che mi sono piaciuti di più (difficile, il disco è quasi tutto perfetto per me), ossia “Cosmic pandemia”, “Solar vacuum” e “The hive”, e consigliando a tutti di non lasciarsi sfuggire questo disco per nessuna ragione al mondo.

2. Revocation – The Outer Ones – Metal Blade

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Ho sempre apprezzato il sound dei Revocation e li ho sempre seguiti fin dall’esordio (che ciò corrisponda a verità è confermato dal fatto che penso di essere uno dei pochi, se non l’unico, al mondo ad avere tatuata su un polpaccio la copertina del loro “Deathless”); potrei risultare forse di parte nel dire che il loro settimo disco, il qui presente “The outer ones” è un lavoro che raggiunge l’eccellenza.
I nostri propongono un death metal tecnico ispirato a band importanti del passato (Nocturnus, Atheist) con una vena thrash nella ricerca dei riff veloci che rendono il prodotto crudo al punto giusto; non manca la melodia, garantita anche dalla doppia voce profonda e maligna dei due singers Dan Gargiulo e David Davidson.
L’equilibrio che la band riesce a creare tra feroce aggressività e melodica espressività è perfettamente reso dal lavoro qui commentato che riesce a convogliare in se stesso tutte le cose migliori fatte dalla band in precedenza (“Existence is futile” e il già citato “Deathless”) ed eliminare il peggio (“Great is our sin”): ne esce un sound particolare, veloce e leggero in certi tratti, cupo e pesante in altri; ma comunque ben amalagamato, credibile, sensato e ottimamente performato da tutti i musicisti.
Alla fine direi che il disco si può catalogare come un’uscita di death metal melodico (seppur come detto convivono nell’album parti thrashose e tutt’altro che melodiose) perfettamente armonizzato nella sua linea compositiva e chiaro nel suo intento evocativo di atmosfere horrorifiche.
Il pezzo più riuscito è per me “Lucifeorus” dove la sintesi descritta esce perfettamente compiuta e l’impostazione jazz dei riff di chitarra si sposa alla grande con l’anima metal più cupa ed espressiva del disco; a seguire, molto belle anche “Of unwordly origin” e la title track.
Che dire, album che colpisce nel segno da parte di una band perfettamente in grado di comunicare con la propria musica le proprie intenzioni compositive; seppur prodotto di nicchia e molto particolare, tutti quelli che hanno le orecchie allenate al genere e si avvicinano ai dischi senza pregiudizi finiranno per apprezzarlo.

3 . Deicide – Overtures Of Blasphemy – Century Media

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A cinque anni dal discreto “In the minds of evil” i pionieri capeggiati da Glenn Benton tornano alla produzione discografica con un disco di circa 40 minuti di compatta blasfemia in perfetto stile Deicide.
Premetto che la band della Florida è stata uno dei miei primi amori giovanili, forse anche per l’attitudine malata di Benton e della storia che aveva messo in piedi per cui si sarebbe suicidato a 33 anni (gli anni di Cristo); tuttavia, non sempre ho apprezzato la produzione dei nostri, soprattutto nel nuovo millennio.
Credo sia ingiusto recensire un disco dei Deicide paragonandolo a “Legion” e ai lavori del loro primo periodo: ai tempi il sound del combo era caratterizzato dalla ricerca della brutale blasfemia, a mio modo di vedere anche con un certo risvolto commerciale, mentre, oggi, Glenn e i suoi suonano un death metal più ragionato, diverso, frutto di un’evoluzione artistica ormai pluridecennale.
Alla luce di questa considerazione, ho ascoltato il nuovo Deicide con un diverso senso critico e ho concluso che il presente lavoro è un passo in avanti rispetto ai precedenti dischi del nuovo millennio, è un lavoro in cui i nostri riescono a non essere eccessivamente piatti nella composizione, creando un interessante susseguirsi di riff di chitarra duri e pesanti, una certa melodica cattiveria blasfema nelle righe di ogni song che rende il disco una lieta sorpresa.
Quello che non cambia è la voce di Benton, possente e aggressiva, anzi migliore di un tempo con l’invecchiamento, e le pesanti distorsioni delle chitarre che rendono il sound comunque ben riconducibile alla band.
Pezzi brevi, possenti, sostenuti da una sezione ritmica varia e ben strutturata, da un lavoro di Steve Asheim alla pelli significativo come sempre, da assoli classici e ben inseriti e soprattutto dal cantato inconfondibile di Glenn che sa dare profondità alle songs.
Assalto blasfemo di pura violenza, il disco non disdegna ripercorrere sonorità ritmate (sempre molto pesanti) tanto care ai nostri in passato, offrendo in fin dei conti un risultato che mi ha soddisfatto appieno.
Tra i pezzi migliori la brutale opener “One with Satan” (come tematiche siamo alle solite), la thrashosa e durissima “Seal the tomb below” e la melodica “Defying the sacred”.
Come in tutti gli album della nuova generazione dei Deicide manca il pezzo che eccelle, la song che sia capace di entrare immediatamente nella testa dell’ascoltatore: ma credo che i Deicide vadano presi e apprezzati quando sono in grado di suonare il loro tipico death metal da assalto, blasfemo, pesante, aggressivo e caratterizzato sulla voce poderosa e cavernosa di Benton.
Con “Overtures of blasphemy” l’intento è raggiunto e tanto basta a rendere il disco uno dei migliori episodi deathmetallici classici del mese se non dell’anno intero.

4 . Cronaxia – Collapsing The Outer Structure – Lusitanian Music

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Scovare questo disco di esordio all’interno del panorama underground brutale portoghese non è stato facile: le band lusitane non si pubblicizzano da nessuna parte, difficilmente suonano in tour in appoggio a qualche gruppo più famoso (se non a livello locale forse), quasi mai sono prodotte da etichette con una diffusione appena oltre il mercato locale.
Per questo motivo, credo di essere uno dei pochi esseri semi-umani in Italia ad essersi creato un paio di contatti utili per tenermi aggiornato sui principali movimenti estremi che accadono nel Paese europeo più occidentale del continente.
Non è una mia fissazione: il movimento death portoghese è interessante e, pur essendo più piccolo di quelli greci e spagnoli (per paragonarlo a due paesi di stampo mediterraneo ben più produttivi della nostra Italia), propone spesso delle chicche.
I Cronaxia sono una di queste: come gli Annihilation lo scorso anno, i ragazzi di Lisbona suonano un eccellente death metal tecnico che non lascia respirare l’ascoltatore.
I nostri sono sulla breccia dal 1997 e, nonostante prima di oggi avessero varato soltanto un EP, dimostrano da subito di saperci fare: la title track con cui il disco si apre esprime le idee della band, poco più di due minuti di assalto ben motivato, riff che si susseguono e rullante in grandissima forma, voce possente e basso incalzante.
Seguono circa 30 minuti di death metal tecnico suonato con dovizia e sentimento, con tutto il cuore e l’esperienza che i nostri hanno accumulato in 20 anni di esistenza.
Tra i pezzi migliori del disco, oltre alla già citata title track, la tecnicissima “Dimension ratio”, la possente “Continuous signal” e la direttissima “Embryonic reanimation”.
Forse i Cronaxia avrebbero potuto essere più produttivi nella loro lunga parabola, probabilmente avrebbero potuto regalarci qualche disco in più: tuttavia, anche nel mondo del metal estremo avvengono fatti che non possono essere pienamente spiegati se non dai componenti delle band stesse.
Credo che la verità sia anche un’altra: nel mondo dominato da internet e dalla comunicazione facile, una casa discografica importante preferisce promuovere sempre gli stessi nomi, perchè anche tra i dediti al metallo ci sono orde di appassionati che non hanno tempo e voglia di soffermarsi più di tanto sulle band emergenti e che preferiscono certezze rappresentate dalle solite bands.
Tuttavia, il modo in cui i Cronaxia mi hanno ringraziato per l’acquisto del disco (inviandomi in dono una copia del loro EP) mi ripaga degli sforzi che mi tocca fare per tenermi aggiornato (nel modo migliore possibile) sulle uscite di band più piccole e meno famose.
Date fiducia a questo combo di Lisbona, premiate la loro dedizione al movimento e loro vi ripagheranno con un lavoro di assoluto valore che non ha motivo di impallidire nel confronto con altri, firmati da band ben più note e titolate di loro.

5 . Krisiun – Scourge Of The Enthroned – Century Media

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La lunga carriera dei brasiliani Krisiun (giunti all’undicesimo disco in quasi 30 anni di vita) si può paragonare a quella di quei marcatori che un tempo calcavano i nostri campi di calcio, quei soggetti che non si prendevano mai un rischio, attaccati all’avversario per novanta minuti, preferivano spazzare il pallone in tribuna piuttosto che disimpegnare nello stretto, mai inutili fronzoli, mai inutili iperbole, battuti solo se l’attaccante sapeva essere più bravo e furbo di loro.
Ecco, i Krisiun sono proprio così: non hanno mai rischiato una neppure piccola deviazione dalla loro linea maestra, dal loro disegno primordiale di offrire un death metal secco e diretto, imperniato sulla velocità assassina, i blast beats della batteria e la ferocia tipica delle band sudamericane dedite ad un genere così distante, all’apparenza, dalla mentalità festaiola e sorridente della gente di quel continente.
E con il loro presente sforzo non hanno alcuna intenzione di cambiare registro.
A me i Krisiun non sono mai dispiaciuti, anche se non li ho mai messi nell’olimpo delle mie preferenze: credo che la loro forza stia proprio qui, non sono nell’olimpo di nessun appassionato (o di pochi eletti al massimo) ma non sono disdegnati da nessuno; proprio come i nostri stopper di una volta, non ti facevano vincere le partite ma avevano l’incarico altrettanto importante di non fartele perdere.
Questo album è valido: brani snelli e diretti incentrati su un riffing poderoso e incalzante, batteria lanciata a tutta e voce aggressiva; album asciutto e penetrante che ci consegna la band brasiliana in ottima forma.
Come detto, non ci si deve aspettare nulla di nuovo e nessuno spazio a deviazioni da quelle che sono le idee compositive della band da 30 anni a questa parte; tuttavia, in pezzi come “Demonic III”, “Whirlwind of immortality” e la title track, i Krisiun sono capaci di trascinarci nel loro mondo di brutale aggressività lasciando l’ascoltatore pienamente soddisfatto.
Questo disco è l’ennesima palla in tribuna dei Krisiun, l’ennesima palla in tribuna di una carriera onesta e meritevole da parte di una band che propone un sano e crudo death metal, divertente in disco come dal vivo.
Il prodotto merita attenzione: a volte è meglio buttare quella palla pericolosa in tribuna e organizzarsi meglio per la difesa piuttosto che prendersi rischi inutili che possono condurre a disastri irreparabili.

6 . Aborted – TerrorVision – Century Media

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Mi sembra che siano passati pochi giorni dall’uscita dell’ultimo Aborted ed eccoci di nuovo qui a commentare un nuovo full lenght dei belgi: la band è ormai un nome noto per chi bazzica queste scene e non necessita di particolari introduzioni.
Il nuovo lavoro è terrorizzante come i predecessori anche se lascia il segno meno di altri dischi degli ultimi anni che ho trovato più convincenti.
Per carità, “Terrorvision” è ottimo: riffs assassini, velocità supersoniche, batteria precisa, voce di “Svencho” sempre distorta e cattivissima, slammeggiate furiose.
Non sono i difetti a rendere l’album un pò anonimo ma il fatto che è troppo vicino a quello che lo ha preceduto: band come gli Aborted sono uscite dall’underground, forse con merito per il valore assoluto della musica che propongono, e sono entrate nel vortice della iperproduttività discografica, condizione che rende queste band meno appetibili per il mio palato.
Intendiamoci, non che mi dispiaccia ascoltare un disco degli Aborted, semplicemente non sento la necessità di ascoltarne uno nuovo ogni anno e mezzo: posso benissimo riprendere un loro lavoro del passato recente senza trovarmi in difficoltà o in crisi di astinenza da pezzi nuovi.
Tuttavia, voglio essere oggettivo e dare al disco il valore che ha, come se fosse un disco di esordio o arrivasse tra noi dopo un silenzio discografico di almeno tre anni.
Il sound degli Aborted è ormai radicato: suonano un groove death metal con intermezzi che definirei tranquillamente grind (o al minimo brutal), il tutto con tecnica sublime e capacità di rendere sempre l’idea di massacro a cui l’ascoltatore è sottoposto.
Le parti ritmate se possibile sono ancora più brutali di quelle veloci, sono poderose e pesantissime, e rappresentano, per me, il lato più intrigante del death metal dei maestri fiamminghi. La tecnica dei musicisti è sublime e il talento compositivo notevole seppur in un contesto in cui la linea sonora tende ad essere sempre la stessa (tappeto di doppia cassa, sparata, staccatona, parte ritmata e di nuovo massacro).
Tra i pezzi di maggior valore segnalo “Squalor opera”, “Deep red” e “The final absolution”.
In conclusione solito album Aborted, band che non tradisce, consigliato tuttavia soltanto ai collezionisti, a quelli che lo devono avere in bacheca per forza; diversamente ci si può limitare a qualche ascolto ben consapevoli che tutto questo è già stato sentito e troppo recentemente.

7 . Horrendous – Idol – Season Of Mist

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Il combo di Philadelphia giunge al quarto album imponendosi come una delle realtà di riferimento del death metal melodico e progressivo del nuovo millennio.
I nostri varano pezzi intriganti, impreziositi dall’uso massiccio delle tastiere, con una evidente propensione a creare un sound di personalità che strizza l’occhio al passato.
“Idol” è un disco in cui la tecnica esecutiva rasenta la perfezione senza perdere di vista la vena rock che permea tutte le song del lavoro.
Nella musica degli Horrendous trovo somiglianze con quelle band della prima ora che hanno virato verso sonorità diverse, tecniche e progressive: le influenze dei secondi Death, dei Pestilence e, soprattutto, dei Nocturnus di “Threshold” sono evidenti.
Tuttavia, come detto, i ragazzi della Pennsylvania sono capaci di creare un sound personale, riconoscibile e terribilmente moderno: unico difetto del disco è la sua ricerca assidua della complicazione, aspetto che a tratti rende troppo sincopati alcuni passaggi, circostanza che determina una certa difficoltà per l’ascoltatore ad entrare pienamente nel mood dei nostri.
Sia ben chiaro, siamo davanti ad un lavoro di assoluto valore e piacevolissimo da ascoltare: tuttavia, le parti veloci (estremamente ispirate ed eseguite perfettamente) a volte risultano un pò scollate dai passaggi prettamente melodici.
Album consigliato soprattutto a chi cerca qualcosa di nuovo, ma qualcosa fatto bene, e a chi ha la pazienza di riprendere in mano alcuni classici del genere appartenenti al periodo successivo alla prima ondata di dischi death metal.
All’interno dell’album ci sono episodi di assoluto valore, quali “Golgothan tongues” su tutte, e, a seguire, “The idolater” e “Obolus”; ma è tutto il prodotto ad essere evocativo e a suggestionare l’ascoltatore trascinandolo in un miscuglio di vecchio rock, heavy, death e progressive senza mai, alla fine, annoiare.
Uscita di valore, forse oscurata dal fatto di essere venuta alla luce in un mese, settembre, nel quale alcuni mostri sacri del genere hanno piazzato zampate più decisive, ma, in ogni caso, un disco che merita attenzione e una band giovane, nuova, che sicuramente sta creando un sound interessante e che farà parlare per bene di sè in futuro se riuscirà a limare certe eccessività compositive presenti in questo disco.

8 . Pyrexia – Unholy Requiem – Unique Leader Records

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I Pyrexia sono una band newyorkese dedita al brutal death metal da parecchio tempo: il loro primo lavoro, “Sermon of mockery”, ha visto la luce nel 1993 ed è, ancora oggi, un album di un certo valore all’interno del movimento.
Oggi, i nostri hanno modificato il loro sound allontanandosi dal tipico stile Suffocation/Immolation degli esordi proponendo un death metal sempre incentrato sul susseguirsi di riff brutali ma caratterizzato da songs più brevi, lineari e dirette.
Quello che ho apprezzato in “Unholy requiem” è la solidità della proposta: nessun compromesso e nessuna intenzione di rivolgere la propria composizione verso strane derive innovative.
La brutalità del disco si conclude in 25 minuti di assalto ben arrangiato, nel quale i musicisti dimostrano di avere le idee chiare e la volontà di intrattenere il pubblico pagante con un sano massacro sonoro.
Certo, di fronte a band moderne capaci di ben più rilevanti performance, il rischio per lavori come il presente è quello di rimanere nell’anonimato, di restare ad un livello di gradevolezza e intensità nella media, senza avere alcuna possibilità di eccellere.
Ci sono pezzi particolarmente duri e diretti, nei quali i Pyrexia scassano per bene le orecchie del malcapitato ascoltatore, trascinandolo di riff in riff e di rullata in rullata; ad esempio “Angels of Gomorrah”, “Moment of violence” e “Path of disdain”.
In sostanza, i ragazzi di New York ci sanno fare: sono capaci di creare quella musica micidiale tipicamente nordamericana, nella quale la brutalità la fa da padrona.
La scelta di abbandonare la complessità compositiva per lidi più chiari, meno tecnici e più diretti, non è disdicevole, anzi: resta il fatto che il disco non fa che collocarsi nell’average, senza infamia e senza lode.
Album consigliato a chi non cerca nulla di particolarmente innovativo e, allo stesso tempo, nulla che possa essere avvicinato a lavori di eccellenza del genere, di oggi e di ieri; compreso il primo disco degli stessi Pyrexia che, nell’ambito dell’ormai discretamente sviluppata discografia del gruppo, resta il momento più elevato, seppur ne rappresenti l’esordio, della produzione di una band che aveva il DNA per emergere, ma che, invece, è rimasta incompiuta e, con questo, sia pur onesto disco, non è in grado di reclamare un posto al sole tra le band di riferimento del movimento brutal.

9 . Binah – Phobiate – Osmose Productions

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Gli inglesi Binah arrivano al loro secondo sforzo e si confermano una band interessante: la provenienza dei nostri non deve ingannare, siamo nella più classica tradizione del death/doom di stampo europeo continentale, ispirato da band che collocano le proprie radici in terreni lontani.
Di certo i Binah sono derivativi dai maestri del genere, gli olandesi Asphyx, ma la vena death trova conferme anche in band nordeuropee di rilievo, quali Unleashed e Grave, oltre una certa propensione a legarsi a sonorità americanoidi care soprattutto ai primi Autopsy.
Alternanza di rallentamenti e accelerazioni come è tipico dei canoni del genere, il tutto eseguito con maestria e con uno sguardo al moderno grazie all’utilizzo (mai troppo ingombrante) del synth.
Altro elemento di valore della proposta dei nostri è costituito dalla varietà dei pezzi: ci sono songs tipicamente death metal di stampo europeo, dirette e crude, accanto ad altre più elaborate, complesse, dove i nostri si avventurano con successo in territori compositivi in parte inesplorati.
Il disco nel suo insieme raggiunge un discreto livello complessivo: non ci sono motivi per gridare al miracolo, ma, proseguendo su questa strada, i Binah saranno in grado di dire la loro all’interno del movimento anche negli anni a venire.
Il tessuto delle chitarre resta interessante per tutto il disco, il growl potente e severo completa perfettamente il tutto.
Segnalo le interessanti “Consuming impulse” dove le tastiere e il synth deviano il genere della band verso territori industriali senza farmi storcere il naso più di tanto, “Exit daze”, intrigante song di moderno death metal nella quale la voce passa dal growl ad una narrazione computerizzata azzeccata (detto così sembra una porcata, ma la resa non è male) e “Mond trap”, più veloce, classica e caotica.
Che dire, non siamo davanti ad un capolavoro, ma i Binah mettono insieme un prodotto che mi sento di consigliare senza esitazione anche ai deathmetallari più oltranzisti, un prodotto nel quale l’attenzione al rispetto dei canoni del genere non stride con la ricerca, non forzata e non esagerata, di spunti innovativi.

10 . Sinsaenum – Repulsion for humanity – Earmusic

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Mi sono sentito in dovere di darvi conto di questo, piuttosto pubblicizzato, disco che al sottoscritto ha convinto non del tutto.
La band in questione è un supergruppo (trai cui componenti c’è il simpatico Attila Cszizar alla voce) che dedica i propri sforzi all’aggressività, proponendo un death metal piuttosto crudo con alcuni riff dall’impianto prettamente thrash e con decise virate verso il black metal di stampo norvegese.
Il mix sembra interessante, detto così; la resa meno: la linea compositiva è spesso complicata, inutilmente volta alla ricerca di qualcosa di poco chiaro.
Il disco passa da parti estremamente brutali che sfociano sovente in ruvidezze blackmetalliche e da altre più cadenzate che, prese isolatamente, sono tutt’altro che da buttare via: è la resa complessiva ad essere poco convincente.
Anche perchè i musicisti sono validi, le idee ci sono (alcuni break in alcune canzoni sono meritevoli di attenzione) e la produzione è più che adeguata.
Canzoni migliori: la complessa ma convincente “I stand alone”, la doomeggiante “Manifestation of ignorance” e la orchestrale, lunghissima, “My swan song”, capace di ricami degni dei primi Emperor.
Album che caracolla senza impressionare tra il death e il black, senza saper decidere dove andare a parare definitivamente: considerato che il progetto è giunto alla sua seconda fatica senza trovare una strada decisa da seguire e considerato che la resa è decente ma non lascia il segno, non ho problemi a dichiarare che non si sente il bisogno che il sodalizio prosegua; non mi strapperò i capelli dalla testa se i vari componenti del supergruppo torneranno serenamente ad occuparsi delle loro creature originali dichiarando la prematura scomparsa dal globo dei Sinsaenum.

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Redazione

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