I 20 migliori dischi PUNK del 2019

A cura di Diego Curcio

Stilare la classifica dei 20 migliori dischi punk, hc, garage e power-pop del 2019 non è stato per niente facile. Mai come quest’anno sono stato combattuto fino all’ultimo su chi tenere e chi escludere e alla fine, come al solito, mi sono fatto guidare dall’istinto del momento. Probabilmente se dovessi ricominciare da capo farei qualche piccolo cambiamento, anche se le fondamenta di questa lista (almeno 10-15 album) resterebbero comunque le stesse. Tra i grandi esclusi che metterei a pari merito al ventunesimo posto ci sono “Bezoar” dei Khiis, “She’s the bomb”dei Control Freaks, “Metal Town” dei Tv Crime, il disco omonimo degli Zàc, l’ep “Costante ossessione” degli Impulso e il 45 giri d’esordio dell’Esperimento del Dr. K. Ma la lista potrebbe continuare, a dimostrazione del fatto che il “punk” (nel senso più ampio del termine) è ancora vivo e pulsante.

1 . Bad Religion – Age Of Unreason (Epitaph)

Sette anni dopo l’ottimo “True North” e un anno prima del quarantennale della fondazione della band i Bad Religion sfornano uno dei loro dischi più belli e a fuoco da un ventennio a questa parte. “Age of unreason” ha tutti gli ingredienti classici che hanno reso questo gruppo una vera e propria istituzione, non solo del punk: canzoni velocissime e ricche di cori epici, la voce di Greg Graffin sempre potente e dal timbro inconfondibile, testi ancora una volta all’altezza della situazione drammatica in cui si versano gli Stati Uniti e il mondo intero e una vena melodica irresistibile. Fare un elenco dei migliori pezzi in scaletta è quasi impossibile, perché praticamente ogni brano meriterebbe una citazione e un approfondimento. Forse si fa prima a dire le rarissime pecche di un album pressoché perfetto: la copertina bruttina (anche se, guardando i loro dischi precedenti, non è che le cose vadano tanto meglio) e una delle due tracce nascoste del cd, la zoppicante (ma dal titolo geniale) “The kids are alt-right”, uno dei singoli usciti prima dell’album che mi aveva fatto temere il peggio. Invece, come ho già detto in tutte le salse, “Age of unreason” non è solo uno dei migliori dischi dei Bad Religion degli ultimi anni: è uno dei dischi punk del decennio.

2 . Briefs – Platinum Rats (Damaged Gods)

Tra i graditi ritorni del 2019 c’è indubbiamente quello dei Briefs, una delle migliori band degli anni Duemila. Quattordici anni dopo il loro ultimo album in studio Steve E. Nix e compagni hanno rimesso insieme il vecchio gruppo e dopo un tour che ha toccato persino l’Italia – e che mi ha permesso, finalmente, di vederli dal vivo – hanno sfornato un album assolutamente strepitoso. “Platinum rats” sembra un disco inciso appena una manciata di anni dopo l’ottimo “Steal yer hart” del 2005, che nella mia classifica ideale degli album dei Briefs è secondo solo al capolavoro del 2000 “Hit after hit”. La formula, fortunatamente, è sempre la stessa: punk 77, con spruzzate di power-pop, ritornelli che ti si stampano subito in testa, melodie da manuale, cori a manetta e pezzi velocissimi. L’abc del punk, insomma, ma suonato con una classe infinita. “She’s the rat”, “I hate the world”, “Gmo Mosquito”, The tought police are on the bus” e “Out of touch” sono piccole storie di delinquentelli da quattro soldi storditi dall’erba e decisi a rompere le palle a tutto il vicinato. Se amate i Boys, i 999 e i Generation X troverete pane per i vostri denti marci.

3 . Bob Mould – Sunshine Rock (Merge Records)

Lo ammetto: ho un fortissimo debole per lo zio Bob e più in generale per gli Husker Du. Ho tutti i loro dischi in più formati, possiedo gelosamente quasi tutti gli album dei progetti post scioglimento di Mould e Hart (di Norton invece è uscito qualcosa solo recentemente) e quando Grant è morto due anni fa sono rimasto in catalessi per giorni. Insomma, con questa premessa sarebbe stato piuttosto strano non trovare in questa classifica di fine anno il nuovo disco di Bob Mould, “Sunshine Rock”, uscito alla fine dello scorso inverno. Un bell’album vibrante di rock melodico, suonato e cantato con la solita classe. Il punk non è un ricordo poi così lontano come per altre recenti prove del nostro. Anzi, in “Sunshine rock” l’attitudine del caro vecchio Bob viene fuori più tosta che mai. Anche perché quando Mould schiaccia il pedale del distorsore la chitarra è ancora capace di suonare come una pressa, mentre la sua voce penetrante e nasale è così rassicurante e inconfondibile da non poterne fare a meno. Una menzione particolare va alla bella cover di “Send me a postcard” degli Shocking Blue.

4 . Amyl and the Sniffers – s/t (Rough Trade)

Anche se la raccolta di singoli uscita l’anno scorso – e scoperta con colpevole ritardo dal sottoscritto – resta decisamente inarrivabile questo esordio omonimo di Amyl and the Sniffers è un disco che merita di finire nella classifica degli album punk del 2019. Le tracce contenute in questo pezzetto di vinile sono un perfetto manuale per giovani maleducati e disadattati: undici schegge di garage-punk grezzo e minimale, con la voce stridula e impertinente di Amyl a trapanarti le orecchie. I pezzi sono meno melodici rispetto al passato e viaggiano a velocità doppia. Una scelta che rende ancora più incandescente questo disco. Pochi fronzoli e tanta sostanza, insomma. Anche se Amyl and the Sniffers non sono un gruppo di totali sprovveduti, la sincerità è il loro punto di forza e questo album, suonato “alla vecchia” come se fossimo a fine anni Settanta (o nei primi Novanta ai tempi della scena gunk punk), è quanto di meglio ci possa essere oggi per chi ama il rock’n’roll crudo e urticante.

5 . Giuda – E.V.A. (Rise Above Records)

Dopo dieci anni di concerti e quattro album anche i più scettici si saranno arresi al fatto che i Giuda siano una delle migliori band italiane contemporanee. “E.V.A.” arriva a quasi 4 anni di distanza dal precedente “Speaks evil” e segna un ulteriore passo avanti del gruppo, senza per questo snaturarne il suono. Se con il terzo album i Giuda si erano avventurati in territori power-pop restando sempre fedeli all’impostazione junk-glam dei primi due lavori (ormai dei veri e propri classici), con il quarto disco il quintetto romano si spinge verso terreni più “space” e “disco”. Che detta così potrebbe anche suonare come un campanello d’allarme per chi ha amato il loro rock’n’roll ruvido e melodico. Ma state tranquilli: l’impostazione di base è rimasta la stessa, è solo che i nostri si sono innamorati di qualche vecchio sintetizzatore analogico e hanno ascoltato un po’ più gli Sweet rispetto ai Bay City Rollers. Detto questo “E.V.A.” resta un album ricco di pezzi melodici che mescolano glam rock e attitudine punk come da copione. Roba da proletari con scarponi e bretelle, pronti ad attaccare briga col primo tamarro che passa sulla pista da ballo.

6 . Good Riddance – Thoughts And Prayers (Fat Wreck Chords)

Pur avendoli sempre considerati un’ottima band, non ho mai seguito con grande attenzione i Good Riddance, storico combo hc melodico californiano degli anni Novanta cresciuto nella scuderia Fat Wreck. Quando però alcuni mesi fa è uscito, dopo 4 anni di silenzio, questo “Thoughts and prayers” ho dovuto per forza di cose prestargli tutta l’attenzione del caso. Perché in tempi di vacche magre come questi, nei quali l’hc melodico sembra invecchiato peggio di come ci saremmo aspettati da ragazzini, un album del genere è una vera e propria manna dal cielo. Velocità, melodie a presa rapida e testi ben scritti sono una combinazione difficile da trovare al giorno d’oggi. E visto che l’hc, ormai, è una roba da vecchi, chi meglio di quei nonnetti dei Good Riddance poteva tirare fuori dal cilindro uno dei dischi hardcore dell’anno? Pezzi come “Don’t have time” e “Wish you well” sono dei veri e propri gioielli da cantare a squarciagola ma, come si dice in questi casi, è tutto il disco a essere stato scritto, suonato e registrato in un particolare stato di grazia. Forse l’album è un pizzico più melodico dei precedenti incisi dai Good Riddence. E chissà che non sia questo il segreto di tanta bellezza. Una delle migliori uscite Fat degli ultimi 5 anni.

7 . Hard-Ons – So I Could Have Them Destroyed (Boss Tuneage)

Il 2019 è l’anno degli anziani. E la conferma arriva con questo nuovo sorprendente album degli Hard-Ons, iconica band australiana fondata nel 1982 e arrivata con alterne fortune fino ai giorni nostri. Non aspettatevi che impieghi le prossime righe a raccontarvi la storia del gruppo: se vi interessa colmare questa gravissima lacuna aprite un qualsiasi libro sul punk e fatevi una cultura (oppure buttatevi come pecorelle su Wikipedia). Chi ha un seguito un minimo le gesta di questo gruppo di pazzi scriteriati sa benissimo che non tutta la loro assai prolifica produzione vanta livelli  altissimi. Alcuni dischi, duole dirlo, si sono rivelati una mezza delusione e quindi ogni volta che i nostri ne sfornano uno nuovo mi ci accosto con una certa cautela. Questo “So I could have them destroyed” però è un gran bell’album, che finisce dritto dritto nella classifica dei 20 dischi punk dell’anno. Come mai, si chiederanno i più avveduti di voi? Prima di tutto perché ritornano le melodie stupende che hanno segnato alcuni dei loro periodi migliori: il caro vecchio pop-punk che mescola Ramones e Beach Boys qui è al suo massimo grazie a pezzi strappa mutande come “Bad bad temper to match”, “Better by the hour” e “Not just for a day”. Poi perché ci sono come sempre le solite sbandate metal (che nelle giuste dosi non guastano mai) e momenti di pura follia (che spesso coincidono con le metallate di cui sopra e che sono la spina dorsale della band). “So I could have them destroyed” è un album che suona come se fosse stato registrato nel 1988, ai bei tempi di “Dickcheese”.

8 . The Minneapolis Uranium Club – The Cosmo Cleaners: The Higher Calling Of Business Provocateurs (Static Shock Records)

I Minneapolis Uranium Club sono una band incredibile, che non risponde certo ai classici canoni del punk. Anzi, credo proprio che potrebbero persino offendersi se qualcuno provasse ad affibbiargli quell’etichetta. Eppure in quel groviglio di suoni nervosi che compongono i loro pezzi mi sembra di intravedere, anche piuttosto nitidamente, il lume della follia che ha dato fuoco alle polveri del primo punk americano. Gruppi come Devo, Screamers e Pere Ubu (ma anche i più “tardi” Minutemen) sono i primi che mi vengono in mente. E non per altro si tratta di veri e propri irregolari del punk. Gente che ha smontato e rimontato il rock’n’roll a proprio piacimento inserendovi dentro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Ed è un po’ questo l’effetto che fanno i Minneapolis Uranium Club: un laboratorio di suoni in cui si mescolano derivazioni kraute, chitarre taglienti, voce isterica dal tono metallico e rumori in sottofondo registrati in qualche metropoli marziana in totale decadenza. Un frullato verde fosforescente, che vi si insinuerà sottopelle come una sostanza aliena pronta a sbranarvi timpani e cervello. Visti dal vivo i Minneapolis Uranium Club sembrano una navicella spaziale lanciata a tutta velocità contro la terra. Mentre su disco rallentano leggermente il ritmo, senza per questo perdere un briciolo di intensità. Non fatevi spaventare dai pezzi lunghi (7 e persino 10 minuti): questa è musica del futuro suonata da un branco di scienziati pazzi dell’Età della Pietra.

9 . Grade 2 – Graveyard island (Hellcats Records)

Mi è bastato ascoltare il minuto e 35 secondi di “Tired of it” che apre “Graveyard island” per innamorarmi dei Grade 2. Questa giovane band inglese ha firmato a luglio con la prestigiosa Hellcat Records e in autunno ha pubblicato un nuovo album strepitoso prodotto da quel volpone di Tim Armstrong. Un disco punk nel senso più classico e migliore del termine. Un album necessario, che sembra uscito direttamente dagli anni Novanta, con le sue melodie sporche e le sue dodici canzoni che raramente superano i due minuti di durata. Un suono robusto e molto americano – parecchio primi Rancid a voler essere sinceri – che però ha la particolarità di avere quel non so che di “inglese” che rende la formula dei Grade 2 praticamente perfetta. Diciamo che se i Rancid sono dei figli del punk-hc americano che sognano Londra, i Grade 2 sono dei sudditi di sua maestà che hanno imparato i classici tre accordi ascoltando i gruppi di Los Angeles e San Francisco. Ma “Graveyard island” non è solo fatto di pezzi veloci e brucianti come “Tired of it” e “Murder town”: ci sono anche brani più lenti e con accenni in levare come “Look up”, che consentono di riprendere fiato prima di ributtarsi nella mischia sotto il palco. Più che un disco, una boccata d’aria fresca in mezzo a tanto piattume.

10 . B Boys – Dudu (Captured Tracks)

L’alt punk irrequieto e un funkeggiante dei Talking Heads rappresenta senza dubbio una fonte di ispirazione importante per i B Boys (anche loro, guarda caso, di stanza a New York come la storica band di David Byrne), ma la particolarità di “Dudu”, il loro ultimo disco pubblicato da Captured Tracks, è la forte personalità che trasuda da ogni traccia. Certo, siamo in chiari territori post-punk, con chitarre affilate e ritmi sghembi, ma tra i 15 brani dell’album si respira anche una certa irruenza giovanile, che rende decisamente unico un sound che mescola radici “bianche” e influenze “black”. Il bello di “Dudu” è che non è per niente un disco studiato. Anzi è l’esatto contrario: una raccolta di canzoni travolgenti, suonate con gusto e una buona dose di immediatezza. Quindici brani taglienti e minimali, ma al tempo stesso caotici e chiassosi (ascoltatevi “Pressure inside” e “Automation” se non mi credete). Qua e là, ma forse la colpa è della provenienza geografica e del nome assolutamente geniale, i B Boys mi ricordano i Bestie Boys più rock e punk. Quelli di “Licensed to ill”, tanto per capirci, ma con con meno pretese e più spirito diy. Ottima anche l’estetica del disco, che sembra citare un altro gruppo immenso e irregolare del primo punk: gli inglesi Wire. Ma come detto poco fa, al di là degli “omaggi” alla “Troppo frizzante” (chi ha visto Boris capirà), i B Boys hanno sfornato un album coi fiocchi, che è praticamente impossibile non amare sin dal primo ascolto. Vi cito solo un altro pezzo: “Instant pace”: siete avvisati.

11 . Haram – Where Were You on 9​/​11​? (Toxic State Records)​

E’ raro che nella classifica dei 20 dischi dell’anno metta un ep. Non è una formato che ami particolarmente e anche se il punk è, per antonomasia, un genere che dà il meglio di sé sulle brevi distanze (i 45 giri o gli ep, appunto), ho sempre preferito analizzare un gruppo partendo da un 33 giri o comunque da una lista di almeno 8-10 canzoni. Gli Haram però meritano un’eccezione. Anche perché, a mio insindacabile giudizio, sono una delle migliori punk-hardcore band in circolazione. E questo piccolo pezzo di vinile ne è il fulgido esempio. Prima di parlare della musica dovete sapere che il gruppo è guidata da Nader, giovane newyorkese di origine libanese, cresciuto dentro la cultura islamica (a casa) e quella cattolica (a scuola). Un mix esplosivo che ha portato il nostro a riversare tutta la propria rabbia in una manciata di canzoni ferocissime e devastanti, cantate in arabo (per la storia più dettagliata datevi un’occhiata alle sue interviste in rete o recuperare un mio articoletto uscito su Go-Go Zine: ommiddio sono perfino finito ad autocitarmi…). Dopo un primo album abrasivo e bellissimo (tra Discharge e hc americano anni Ottanta) dal titolo “When you have won, you have lost” uscito due anni fa, gli Haram sono tornati quest’anno con “Where were you on 9​/​11​?”, un ep che racconta l’America post 11 settembre dalla parte delle minoranze (soprattutto di origine mediorientale). Quattro pezzi stupendi e forse leggermente più melodici rispetto all’esordio che ricordano gli Husker Du di “Everything falls apart” in salsa orientaleggiante. Gli Haram, anche questa volta, cantano in arabo (ma ci sono le traduzioni in inglese, tranquilli) e sfoderano un mini concept capolavoro, che dimostra come il punk sia ancora oggi la musica degli emarginati.

12 . Steve Adamyk Band – Paradise (Dirtnap Records)

Il pop-punk gode ancora di ottima salute e ce lo dimostra la Steve Adamyk Band, che difficilmente sbaglia un colpo. “Paradise”, sesto album in 9 anni uscito, come sempre, con il prestigioso marchio Dirtnap – gente che se ci fosse un Premio Nobel per le melodie sporche e irresistibili lo vincerebbe a mani basse da almeno 15 anni – è un disco semplice, che colpisce direttamente al cuore. Punk-rock, power-pop e garage si fondono alla perfezione in una amalgama davvero speciale (ricordate i Bad Sports citati lo scorso anno? Ecco: siamo esattamente da quelle parti). Certo, la Steve Adamyk Band non inventa nulla di nuovo, ma ciò che la distingue dalla massa di gruppetti pop-punk che nascono e muoiono come mosche lasciandoci scialbe melodie da quattro soldi sono le canzoni. “Waiting to die part 1”, “Waiting to die part 2” e “When i was gone” messe una in fila una dietro l’altra sono tre piccoli gioielli pop che difficilmente vi stancherete di ascoltare. Coretti, chitarre pulite e sporche in deliziosa e perfetta alternanza e cantilene appiccicose come gomma da masticare spiaccicata sul cuore. Ma l’elenco, come ho già detto per altri campioni di questa classifica, potrebbe andare avanti fino all’esaurimento di tutti i 15 brani in scaletta (dai, vi butto lì un altro super pezzo: “Take it to the top”). La Steve Adamyk Band è pronta a diventare il vostro gruppo preferito.

13 . The Cowboys – The Bottom Of A Rotten Flower (Feel It Records)

Ancora oggi il modo più semplice con il quale riesco a scoprire nuove band è il classico passaparola: il semplice consiglio di un amico o alla recensione letta su siti e giornali specializzati sono sempre i modi più efficaci per svuotare il portafoglio. Perché diciamoci la verità: anche se Internet offre grandi opportunità, senza le dritte giuste rischieremmo di perderci fra mille gruppi inutili e stupidamente famosetti. I Cowboys, con il loro nome ridicolo e bellissimo, sono il classico colpo di fulmine scoccato grazie alla velina giusta. E’ bastato un tag su Facebook e un rapido giro su bandcamp per scoprire uno dei dischi power-pop più eccitanti dell’anno. “The bottom of rotten flower” sembra uscito dal periodo d’oro di questo “non genere”: gli anni che vanno dal 1979 al 1981. Un periodo pieno zeppo di band troppo pop per essere punk e troppo sguaiate e rumorose per entrare in classica. Beat, Shoes, Plimsouls, Records, Knack – solo per citare i gruppi più blasonati – sono i numi tutelari dei Cowboys, capaci di mescolare motivetti incantevoli e ruvidi come “Wet behind the eyes” e ballatone da nerd impenitenti come “Doghouse rag”, dove spuntano fuori un pianoforte e una melodia barocca dal sapore di sciroppo per la tosse. E poi ci sono sassofoni impertinenti (“Now with feeling”), tastierine giocattolo (“Some things never change”) e incursioni anni Sessanta (“Happy Armageddon”: titolo da 10 e lode). Un monumento alla melodia, senza vergogna e reticenze.

14 . Fronte della Spirale – s/t (Mastice Produzioni)

I Fronte della Spirale sarebbero una delle migliori hardcore band italiane se non si fossero appena sciolti. Per fortuna ci hanno lasciato in eredità un disco d’esordio che è un piccolo capolavoro, di cui – sono sicuro – si continuerà a parlare anche fra 5 o 10 anni. Undici pezzi in 28 minuti che, al di là di alcuni riferimenti più o meno chiari (Negazioni e Crash Box) hanno personalità da vendere. Testi introspettivi e quasi emo-core – alla Dag Nasty e alla Embrace per intenderci – ma con solide radici nella già citata vecchia scuola italiana anni Ottanta. Ritmi vorticosi e progressioni da capogiro, un suono di chitarra pieno e una voce, quella di Schino, assolutamente perfetta e sempre in primo piano. Grande merito va anche alla produzione impeccabile: un lavoro a regola d’arte, che mette in risalto tutta la potenza della band di Campobasso. I miei pezzi preferiti sono “Il continuo” e “Me stesso”, ma meritano una citazione anche i due strumentali “Fronte della spirale” e Lossdregan”: il primo più classicamente hardcore, l’altro una veloce e curiosa incursione kraut che ti spiazza completamente. Uno dei miei più grandi rimpianti è non essere mai riuscito a vederli dal vivo.

15 . Santamaria – s/t (Flamingo Records)

Prendete quattro giovani teppisti dal cuore d’oro, regalategli – distribuendoli completamente a caso – un microfono, due chitarre, un basso e una batteria e fategli ascoltare qualche disco rumoroso e da due soldi: nel giro di qualche settimana avrete una delle più eccitanti punk band del momento. I Santamaria di Genova, fiore all’occhiello dell’etichetta-negozio Flamingo Records (tenete d’occhio anche L’Esperimento del Dr. K e gli Small Thing) sono uno dei pochi gruppi contemporanei che riescano farmi emozionare come quando ero ragazzino. È assurdo, a pensarci bene, che un vecchio malmostoso come me sia ancora capace di provare dei sentimenti sinceri per una band di ventenni. Eppure, chiamatela demenza senile, è proprio ciò che mi è successo con loro. I dieci pezzi di questo cd, perché l’album è disponibile solo in cd (che il Dio del punk-hc li abbia in gloria!) sono delle schegge di punk sghembo e zoppicante. Mezzora scarsa di pura goduria, fra chitarre distorte, voce ruvida e melodie disperate cantate in coro. Zero ritornelli e tanta voglia di fare casino. Come ho già detto in molte occasioni i Santamaria mi ricordano l’urgenza di band immense come Crimpshrine, Fifteen, Monsula, Pinhead Gunpowder e tutto il giro dei primi sporchissimi gruppi Lookout, prima che la label si votasse quasi del tutto al pop-punk. Il bello è che credo (e spero) che i Santamaria non abbiano mai ascoltato una di queste band.

16 . Moving Targets – Wires (Boss Tuneage)

Ventisei anni dopo il loro ultimo disco e a oltre tre decenni dal loro esordio i Moving Targets – campioni dell’indie rock e del post-hc americano di fine anni Ottanta – sono tornati a suonare dal vivo e incidere nuovi pezzi. “Wires” è il risultato di questa reunion partita un po’ in sordina, ma che sta macinando piccoli successi. Un ritorno assolutamente genuino e fuori da ogni logica commerciale (chi se li ricorda più ormai?), che per me resta uno degli eventi dell’anno. E lo dico anche se, al di là delle mie classiche smargiassate, conosco i Moving Targets da nemmeno un lustro: un ritardo imperdonabile che ho cercato di colmare recuperando alla svelta tutti gli album e votandomi completamente al loro culto sotterraneo. Ma torniamo al disco e mettiamo subito le cose in chiaro: anche se “Wires” non ha certo la caratura di “Burning in water” e “Brave noise” (e grazie al cazzo: quelli erano due album immensi) resta comunque un ottimo lavoro, ricco di pezzi eccitanti. Kenny Chambers, unico membro originale rimasto (e da sempre vero e proprio deus ex machina dei Moving Targets) sa ancora scrivere grandi canzoni come dimostrano “Living for you”, “Stone”, “Radio” e “Transmission” (le punte di diamante del disco). “Wires” guarda ancora una volta al post-hc americano forgiato dagli Husker Du e a tutta la scena nata sul solco tracciato da Mould, Hart e Norton (i Lemonheads su tutti). E lo fa quasi come ai vecchi tempi.

Oggi forse i Moving Targets sono meno spigolosi e più melodici rispetto al passato. Ma è tutt’altro che un difetto.

17 . Snuff – There’s a lot of it about (Fat Wreck Chords)

Spiace dirlo ma, a parte rari casi, se togli alla Fat Wreck vecchi leoni come gli Snuff e i già citati Good Riddance (per non parlare dei mai troppo lodati NOFX) resta davvero poco. Detto questo quando certi nomi di peso scendono in campo capita persino che un mugugnone come il sottoscritto inserisca due dischi della label di San Francisco fra le 20 uscite punk, hc, garage e power-pop dell’anno. Che ci volete fare? Gli Snuff sono una band da capogiro, che è pressoché incapace di pubblicare dischi mediocri o incolori. Sono in pista da oltre 30 anni e da più di due decenni incidono per la label fondata da Fat Mike. Nonostante questo però continuano a sfornare grandi album. La loro formula “segreta” fatta di punk, melodie caciarone, mod sound e hardcore è ormai un marchio di fabbrica, ma – fateci caso – nessuno suona come loro o tenta di imitarli. Questo nuovo album è l’ennesima conferma di quanto buono detto poc’anzi. La voce di Duncan passa con nonchalance da sfuriate hardcore come “Kiss my rig” a ruspanti quadretti pop intrisi di tastieroni e trombone come “A smile gets a smile”. “There’s a loto of it about” è un disco da lasciare nello stereo o in autoradio per intere settimane. La colonna sonora ideale per qualsiasi cosa.

18 . Nots – 3 (Goner Records)

Come ci ricorda il titolo di quest’album le Nots di Memphis (Tennessee) sono giunte al traguardo del terzo disco. E visto quanto di buono fatto in passato (vi consiglio caldamente l’ottimo esordio del 2014) ero abbastanza sicuro che, anche questa volta, non sarei rimasto deluso. “3”, come volevasi dimostrare, è un album pieno di belle sorprese, che colpisce sin dal primo ascolto. Cantilene martellanti sorrette da un basso sporco e invadente, rullate vorticose, ritmi marziali e una chitarra ipnotica sono le fondamenta sulle quali si reggono i dieci pezzi del disco. Le Nots hanno una forte personalità e riescono a creare un suono tutto loro piuttosto difficile da definire. Pensate a un gruppo garage che suona post-punk, ma che ha anche una cotta pazzesca per lo space-rock. Una sorta di psichedelia punk, verrebbe da dire, con momenti più onirici e fluttuanti (“In glass” e “Half painted house”) e un amore appassionato per le ritmiche black (“Persona”). Ogni pezzo rappresenta una storia a sé, anche se fa parte di un unico mosaico. Come quei dipinti che, visti da vicino, sembrano un guazzabuglio di colori, ma più ti allontani più acquistano una forma compatta. Un disco insolito, ma al tempo stesso familiare.

19 . Chain Cult – ShallowGrave (La vida es un mus)

Dark punk militante. Potremmo definirlo così questo splendido disco dei greci Chain Cult pubblicato dalla sempre attenta La vida es un mus, una delle migliori label punk in circolazione e punto di riferimento per la scena underground europea. “Shallow grave” – l’ennesimo esordio che trova spazio in questa classifica – mi ricorda i mai troppo lodati Red Dons (una della mie band preferite degli ultimi 10 anni) e certi oscuri gruppi svedesi come Vicious e Rotten Mind. Tutti gli otto pezzi dell’album hanno un retrogusto malinconico e sono immersi in atmosfere gelide, da inverno innevato oltrecortina. Un rock’n’roll spettrale, con chitarre liquide alla Joy Division e una voce inquieta e feroce, come quella di alcuni gruppi beach punk americani di inizio anni Ottanta. Un incrocio eccitante fra TSOL, Adolescents e band di Manchester, tanto per intenderci. “The invited”, “Distant echo” e l’evocativa  “Traffic” sono alcuni dei pezzi migliori in scaletta.

20 . Control Top – Covert Contracts (Get Better Records)

Inni contro il patriarcato e il capitalismo (che, come sempre, viaggiano felicemente a braccetto) e un suono ruvido ed essenziale tra post-punk, wave e hardcore. Gli americani Control Top di Philadelphia, guidati dalla cantante e bassista Ali Carter, esordiscono con il botto.“Covert contracts” è un disco carico di rabbia, che non ti lascia un attimo di respiro. L’assalto all’arma bianca di basso, chitarra e batteria viene rafforzato da alcune interessanti divagazioni elettroniche, che irrobustiscono i pezzi e creano una sorta di muro di suono sintetico. Musica robotica contro la lobotomizzazione, con chitarre che stridono come treni che deragliano e la voce di Ali che ti prende a pugni dalla prima all’ultima canzone. Ci sono momenti più melodici come “Straight Jacktes” e “Prism” – che hanno qualche reminiscenza post-punk inglese anni Ottanta – e vere e proprie mazzate tipo le destabilizzante “Betrayed” e “Black hole”. I Control Top sono il sottofondo perfetto per un’epoca di ansia e soprusi come la nostra.

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Redazione

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