L’Angolo Della Morte: Le 10 uscite Death Metal più significative di Febbraio 2018

Nuova puntata dell’Angolo Della Morte! Ogni mese i 10 migliori dischi pubblicati in ambito Death Metal selezionati e sezionati dal misterioso Apparizione79, vero e proprio cultore del genere che in questo speciale recupera gli ascolti di Febbraio 2018. Ma non temete: presto scopriremo anche Marzo e Aprile! Rimanete sintonizzati su Tomorrow Hit Today (magari seguendo la pagina Facebook)!

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Febbraio è il mese ideale per gli ascolti casalinghi: giornate ancora brevi, temperature piacevolmente basse, neve e pioggia. Non che il sottoscritto, a luglio, muti più di tanto le sue abitudini… Ma, oggettivamente, stare chiusi in casa ad ascoltare metal a febbraio è socialmente più accettato che a luglio. Ce ne faremo una ragione.

Tuttavia, febbraio 2018, dopo l’inizio scoppiettante di gennaio, ha registrato qualche uscita di meno: diverse eccellenze (su tutte il nuovo Necrophobic), ma anche qualche disco che ho trovato contraddittorio e tanto, tantissimo underground di livello; in ogni caso quanto basta per soddisfare i nostri palati deathmetallici.

Nella lista che segue, ho cercato di essere obiettivo: valutare le uscite in base al loro reale valore e non solo per il mio gradimento. Spero che anche il ranking di questo mese possa dare ai lettori spunti interessanti.

 

1. Necrophobic – Mark of the Necrogram – Century Media

La produzione degli svedesi Necrophobic, in quasi 30 anni di onorata carriera, è stata sempre di altissimo livello: a partire da “The nocturnal silence”, con cui, nel lontano 1993, i nostri erano entrati di diritto tra i mostri sacri della seconda ondata dello swedish death metal insieme a band del calibro di Desultory e Vomitory per citarne un paio. Ma i Necrophobic si sono coperti di gloria anche nei meno ruggenti anni duemila, quando con i sontuosi “Hrimtursum” e “Death to all” avevano aggiunto due ulteriori eccelsi tasselli alla loro discografia; soltanto con “Womb of Lilithu”, album precedente al presente, avevo notato un calo, una certa stanchezza compositiva, nonostante il prodotto fosse nel complesso più che buono.
Con “Mark of the Necrogram”, gli svedesoni tornano ai fasti dei precedenti lavori, sia a livello compositivo che esecutivo: il loro sound è caratterizzato da un death metal velocissimo, ricco di riff melodici e oscurato da una vena black che rende l’atmosfera del disco particolarmente dark e cattiva; le parti veloci sono ispirate come in pochi altri prodotti e lasciano sempre di stucco l’ascoltatore, l’esecuzione è di livello altissimo.
Su tutte, la velocissima e punitiva “Sacrosanct”, a seguire le devastanti “Odium caecum” e “Lamasthu”, e poi tutto il resto: melodia e aggressività perfettamente combinate anche grazie ad una produzione che valorizza appieno le doti dei musicisti.
A completare il tutto, un artwork degno dei primi nineties impreziosito da uno dei loghi più belli e particolari della storia.
Senza dubbio, siamo davanti ad uno dei dischi più importanti dell’anno, candidato ad essere tra i primi 5 prodotti migliori del 2018; un disco che rasenta la perfezione e, a mio modo di vedere, conferma i Necrophobic nell’Olimpo del death metal, ponendoli come una delle band di riferimento per tutto il movimento. Un disco da non perdere per nessun motivo.

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2. Ataraxy – Where all hope fades – Dark Descent Records

 

Quando penso a Saragozza, la città capoluogo della regione spagnola dell’Aragona, mi torna in mente un assurdo viaggio di quelli che si fanno da ragazzi, che mi portò a raggiungerla dopo una notte di guida, partito la sera prima da qualche posto di mare nel sud della Spagna.
Di quel viaggio ricordo una interminabile e buia strada che percorsi solo insieme ai camionisti, un autogrill deserto dove per colazione servivano esclusivamente panini al prosciutto e il profilo regale della città alle prime luci del giorno; non ricordo perchè mi trovavo lì.
Gli Ataraxy vengono da Saragozza e il loro secondo album ha risvegliato in me questi ricordi, come fece il primo loro disco alcuni anni fa; tuttavia, quando ho saputo dell’uscita di “Where all hopes fade” sono stato contento, non certo per il ricordo di quel viaggio, ma soprattutto perchè adoro lo stile degli spagnoli ed ero curioso di sentire se, nel nuovo lavoro, avessero mantenuto le ottime premesse del primo disco.
Direi proprio di sì: gli Ataraxy si inseriscono nel novero di band che popolano il prolifico panorama death/doom attuale e, dopo l’uscita di questo secondo album, si potrebbe azzardare che rappresentano una delle voci più originali, intriganti e promettenti del subgenere.
La musica dei nostri è paragonabile agli ultimi lavori degli Incantation in quanto a durezza e profondità delle parti ritmate, seppur ispirata da una maggiore ricerca della melodia.
Il pezzo forte del disco, a mio modo di vedere, sta nella forte personalità della proposta degli spagnoli, la capacità di creare una coinvolgente atmosfera musicale capace di trasportare l’ascoltatore dal doom al death con naturalezza e in maniera mai scontata.
Il lavoro dei musicisti è tecnicamente ineccepibile: le chitarre ispirate, il basso cupo e la batteria intensa; vi segnalo la sontuosa cavalcata doom di “Matter lost in time”, l’esplosiva “The mourning path” e, sopra ogni altra, la deatheggiante e riffosa “One last certainty”, pezzo in cui la band da il meglio di sè.
Gran periodo per il death/doom, anche grazie a questo sforzo davvero ben riuscito degli Ataraxy: i pezzi lunghi e ispirati del disco sarebbero stati l’ideale per accompagnare la mia notte di guida lungo quella buia strada deserta nel cuore della Sierra. Ma questa è un’altra storia.

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3. Atomwinter – Catacombs – Trollzorn Records

De gustibus non est disputandum dicevano i latini: il senso della massima è corretto, la realtà delle cose differisce alquanto; ognuno ha i suoi gusti, questo è indubbio, tuttavia una delle più diffuse e soddisfacenti attività dell’essere umano consiste nel difendere le proprie teorie e posizioni, al punto da tentare di convincere il prossimo della correttezza e assoluta veridicità delle tesi che sostiene.
In realtà non è mia intenzione provare a convincere qualcuno: tra maschi si parla spesso di donne, politica, sport, musica… Si arriva spesso a conclusioni diverse, ma, allo stesso tempo, ci sono dei punti fermi condivisi più o meno all’unanimità: (quasi) tutti i maschi sono attratti dalla bellezza femminile e a (quasi) tutti i metallari piacciono tutti i generi di metallo, salvo derive troppo sperimentali che incontrano il gusto di una minoranza.
Tuttavia, ci sono delle preferenze, i gusti appunto: assistere ad un concerto gothic non mi da particolare soddisfazione, così come accompagnarmi con una signora dalle forme troppo abbondanti; i gusti appunto. Proprio per questo, quando ho sentito per la prima volta il prodotto degli Atomwinter ho pensato che non sarebbe piaciuto proprio a tutti.
Siamo davanti al più classico e pesante dei death metal, suonato dal quintetto tedesco con particolare cura della forma (produzione impeccabile e potente) e della sostanza, intesa come rispetto dei canoni cari al genere (chitarre riffose, batteria devastante con particolare attenzione al ruolo del rullante stile martello spaccatesta, basso poco appariscente e vociona distorta e altissima); nessuno spazio alla sperimentazione, anche se il sound ha un qualcosa di moderno, accanto ai vecchi Bolt-Thrower si sentono anche band più recenti tipo Gruesome, Father Befouled o l’ultimo (eccellente) Incantation per le parti doom o lente che dir si voglia.
Queste band della nuova generazione hanno un sound più cupo e brutale rispetto agli storici predecessori, forse per la produzione più precisa, forse per la tecnica esecutiva particolarmente accurata; l’album esce ispirato, ottime la title track, la doomeggiante “Ancient Rites” e la oppressiva “Dark Messiah”.
Ma ricordatevi il discorso sui gusti: consigliato solo agli amanti dell’old school in cerca di conferme; se siete per l’innovazione e la sperimentazione andate altrove; cosa volete che vi dica? A me il disco è piaciuto parecchio, ma forse sono un tradizionalista senza speranza, sia in fatto di estetica femminile che di death metal.

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4. Rotheads – Sewer fiends – Memento Mori Records

Prima dell’affermazione dell’era globalizzata in cui stiamo tutti vivendo esistevano enormi differenze legate alla terra di provenienza: nella politica, nei costumi, nello sport e nella musica. Oggi è tutto più sfumato, le diversità sono appianate da un modello di vita globale più o meno simile per tutti: le vie principali delle città sono identiche in tutto il mondo, negozi di marchi importanti, puzza di cibo simile e gente vestita allo stesso modo ovunque.
Forse nel metal è rimasta una qualche attenzione al rispetto di certi canoni geografici, nel death soprattutto siamo soliti parlare di scuola americana, svedese, tedesca, mediterranea, eccettera eccetera. Tuttavia, anche qui, le differenze si stanno appianando, o meglio restano, ma esistono band provenienti da zone di scarsa tradizione in grado di carpire i dettami dei principali ispiratori nati e cresciuti in parti del mondo dove la scena è sempre stata più importante.
Quando ho sentito per la prima volta “Sewer fiends” degli ignoti Rotheads ho pensato fossero finlandesi: i riff cupi e complessi mi hanno ricordato i Demilich e i Convulse anche se nel disco c’è qualcosa dei mostri sacri svedesi Dismember ed Entombed delle origini. Tuttavia, le parti lente e cadenzate mi hanno rammentato “The rack” dei maestri olandesi Asphyx e alcuni assalti sparati sono in pieno Autopsy prima maniera o Morbid Angel tempi di “Blessed are the sick”.
Sono andato a vedere la provenienza dei nostri: Romania. Quando eravamo piccoli da quelle parti si occupava del “benessere” della gente il vecchio dittatore Ceaucescu che di sicuro non amava il death metal e non permetteva ai propri conterranei di accedere a chissà quale materiale estremo proveniente dal resto del globo.
Oggi, bands come i Rotheads arrivano al loro primo lavoro con un bagaglio culturale impensabile per un gruppo che vive in un territorio musicalmente povero come la Romania (almeno dal punto di vista estremo, salvo una certa propensione al black metal).
Non sono solito concedere troppi onori agli esordienti, ma per i Rotheads ho fatto un’eccezione: il lavoro è oscuro e cattivo al punto giusto, i riffoni stile Asphyx o Convulse e le parti veloci che rimembrano gli Autopsy sono ben amalgamati insieme, la produzione è ottima e un pò vintage, volendo rievocare suoni più anni novanta che odierni.
Tra i pezzi migliori la title track di apertura del disco, “From the glowing goo rise” dove i frenetici cambi di tempo e il bassone aggressivo mi hanno ricordato i Death di “Human” e “Spiritual Healing”, la funerea e asphyxeggiante “Rats in the wall” e la brutale, lunghissima e oscura “The mad oracle of Seweropolis”, mastrerpiece di un lavoro nel complesso eccellente.
Album di old school con uno sguardo al presente, spero che la strada che i Rotheads hanno intrapreso li porti a migliorare il loro sound, a livello compositivo e di originalità, ma oggi ci godiamo questo putrescente “Sewer fiends” come una delle più piacevoli sorprese di questo inizio anno.
Consapevoli che anche il vecchio death metal è diventato globalizzato come i vestiti e il cibo: forse per i nostalgici come me era più bello e poetico quando le band erano poche, i mailorder anche meno, e avere un disco nuovo da ascoltare era difficile, ma anche molto soddisfacente.
Non si torna indietro, anche se il death metal che arriva dai Carpazi presenta una vena retrospettiva che è quasi un tributo a quel mondo segnato dai confini, geografici e culturali, ormai scomparso.

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5. Morbid illusion – In The Crypt of the Stifled – Immortal souls Productions

Quando ho visto il layout di questo cd, prodotto, e per bene, da una piccola label slovacca, e ho letto che i MI provengono dalla Svezia, ho pensato di trovarmi davanti ad un lavoro swedish nuova generazione; ossia death metal classico in vena Revolting o Interment per intenderci, riff duri e pesanti e meno melodia di un tempo.
Mi sbagliavo, almeno parzialmente: i nostri arrivano al primo full lenght dopo un EP e propongono un sound estremamente aggressivo, di stampo più americano che svedese, le canzoni sono brevi e sparate sulla faccia del malcapitato per 30 minuti abbondanti di gradevolissimo assalto sonoro.
I giovanotti (parliamo di ragazzi nati nei late nineties) ci sanno fare a livello tecnico: batteria grindeggiante, chitarre spaventosamente veloci e abili nei cambi di riff e voce growl cattiva e convincente.
La strada scelta di comporre pezzi piuttosto brevi per gli standard del genere mi ha, a volte, lasciato perplesso: alcuni riffs sono indovinati e meriterebbero una maggiore insistenza; tuttavia ho risolto il problema riascoltando la canzone più volte consecutivamente, cosa che di solito non faccio.
Questo senso di incompiuto è il lato meno convincente del disco, ma ne rappresenta anche una particolarità che non va trascurata: le canzoni death metal classiche arrivano intorno ai 4/5 minuti di durata e contengono, spesso, molte varianti; avere il coraggio di suonare pezzi corti, diretti, ma death metal a tutti gli effetti (non grind o brutal per capirci) mi ha, all’inizio, lasciato interdetto, ma in fondo ha il suo perchè.
Pezzi degni di nota: la title track, l’iniziale “It came back” e “Mutation amputation” (titolo demenziale a parte).
Alla fine, ho digerito lo stile dei nostri, che definirei interessante: vedremo in futuro se i marmocchi svedesi sapranno mantenere quanto di buono c’è nel loro “In the crypt of the stiffed”, ottimo debutto nel segno della brutalità più aggressiva e feroce.

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6. Infernal Legion – Under the cloven hoof – Moribound records

 

Quarto album in venti anni di carriera per una delle band più underground di tutto il panorama death metal americano: gli Infernal Legion arrivano da una cittadina sperduta tra i boschi e le montagne dello stato di Washington e si tengono ben lontani dalla notorietà che molti loro conterranei hanno raggiunto nella vicina e civilizzata Seattle.
Inutile dire che li ho sempre seguiti e apprezzati, anche se nessuno, loro per primi, ha mai fatto nulla per pubblicizzare (anche solo un minimo) la musica che suonano.
Inserire il loro nuovo disco in questa mia lista non vuole essere solo un tributo all’underground e un riconoscimento per il lavoro di questi ragazzi poco noti, si tratta di una scelta dettata soprattutto dall’ottimo livello del prodotto.
Parliamo di 30 minuti circa (dai 34 totali vanno tolte 3 intros che arrivano a quasi 3 minuti complessivi) di death metal suonato con grande determinazione e sentimento: chitarre euforiche, batteria che tramortisce e vociona satanica.
La connotazione blasfema di questo tipo di death metal americano è qui perfettamente rappresentata: le intros non sono un caso, sono il preludio all’assalto contro il Divino che i nostri orchestrano con i loro strumenti; la scelta di un layout più vicino al black metal (stile Sadistik Execution per intenderci) è di nuovo qualcosa di cercato; e, per finire, l’attitudine rigidamente underground che la band vuole mantenere.
Ma non vorrei essere frainteso: siamo davanti al più classico dei death metal, brutale e sparato, in cui la vena black è presente più negli atteggiamenti che nella musica.
La produzione è ottima e i ragazzi ci sanno fare: merita un ascolto, ma non perdete tempo se volete acquistare il cd, perchè è uscito, ovviamente, in edizione superlimitata.

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7. Rapture – Paroxysm of hatred – Memento Mori Records

Non sono un amante delle band death-thrash: se voglio ascoltare del thrash, ho gli Anthrax e i Nuclear Assault e gli Exodus e compagnia bella, non ho bisogno di mescolarlo con il death; ci sono eccezioni: adoro i Cancer ad esempio, ma non vorrei dilungarmi troppo su cosa è di preciso il death-thrash, cosa invece il death classico con influenze thrash, ecc…
Per darvi un’idea di cosa penso che sia il sottogenere death-thrash vi invito ad ascoltare questo album dei greci Rapture, che arrivano al loro secondo sforzo con un prodotto che ha destato la mia attenzione.
“Paroxysm of hatred” è sparato a mille all’ora dall’inizio alla fine: la linea compositiva richiama il vecchio thrashone tedesco stile Sodom o la vena più estrema del thrash californiano, di cui gli Exodus hanno, a mio modo di vedere, scritto il manifesto con l’inarrivato “Bounded by blood”, con l’inserimento di riff deatheggianti crudi e disturbanti tipo “Leprosy” dei Death o “Severed survival” degli Autopsy; le chitarre non si fermano un attimo nella continua ricerca del massacro sonoro e la batteria, lanciata al galoppo dall’inizio alla fine del disco, fa il resto; basso quasi non pervenuto come sempre accade in questo genere di prodotti, voce aspra e poco amichevole.
I Rapture non si inventano nulla di nuovo, ma suonare questa musica che sa di “antico” nel 2018 merita rispetto, soprattutto se a farlo, e bene, sono dei ragazzi che provengono dalla Grecia e non dalla Bay Area.
Se avete voglia di un disco veloce, ben suonato e ben prodotto, questo album fa per voi: sarà come mangiare un buon piatto di spaghetti al pomodoro, non deludono mai anche se non sono il piatto preferito di nessuno.
Se, invece, avete voglia di ravioli o aragosta, state sbagliando ristorante.

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8. Horroraiser – Impatenaris – Narcoleptica Productions

 

Questa piccola label russa, sempre più attiva nell’undeground di genere, sta iniziando a regalarci qualche piccola perla, come il lavoro dei conterranei Horroraiser.
I ragazzi suonano un canonico death metal brutale e aggressivo di stampo americanoide, anche se somigliante a quanto proposto da numerose band della nuova era tedesche, quali gli Hackneyed (RIP) o i sovracitati Atomwinter.
Non troverete nulla di nuovo in questo disco, ma allo stesso tempo potreste rimanere molto soddisfatti se cercate conferme ed esecuzioni tecnicamente ineccepibili.
Non sono un grande amante dell’underground russo, trovo le band provenienti da quelle lande troppo interessate alla brutalità a tutti i costi, pena la caduta nell’anonimato.
Per gli Horroraiser mi sento di fare un’eccezione, il disco mi è piaciuto molto (tanto da comprare anche il loro primo lavoro); i ragazzi di Murmansk ci sanno fare: chitarre ispirate, voce gutturale, basso ben impostato e batteria semiperfetta.
Non vi posso segnalare alcuna song dal titolo perchè non comprendo il cirillico, alfabeto in cui sono indicate nel libretto, e mi limito a darvi i numeri: 1, 4 e 5 su tutte.
Poco più di mezz’ora di death metal ottimamente suonato: affrettatevi se volete acquistare il cd, perchè è distribuito in sole 500 copie che, a mio modo di vedere, andranno presto in esaurimento.

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9. Pestilence – Hadeon – Hammerheart Records

I Pestilence rappresentano, secondo me, l’esempio vivente di una band che non ha mai trovato la propria strada: dopo gli esordi caratterizzati da un sound thrash che presto è sfociato in uno dei migliori album death metal del periodo, ossia “Testimony of the ancients”, i nostri hanno iniziato a sperimentare con il successivo, contestatissimo, “Spheres”, fino a sciogliersi e riformarsi per offrire all’ascoltatore, negli anni recenti, una serie di dischi mediocri, di scarso spessore e, giustamente, poco conosciuti.
Con “Hadeon” c’è un apprezzabile tentativo di tornare alle origini, ad un sound più duro e death metal a tutti gli effetti: le prime canzoni del disco, inizialmente, mi sono piaciute parecchio; tuttavia, il prosieguo dell’album si è perso un pò, finendo per lasciarmi interdetto.
Ho pazientemente riascoltato il tutto più volte per concludere che il lavoro è, nel complesso, più che sufficiente, il cantante di origini italiane Patrick Mameli passa dallo scream al growl dando intensità alle songs, la produzione è ottima e alcuni riffs dicono la loro.
Tuttavia, si fa fatica a distinguere le canzoni, l’ispirazione è relativa e, pur essendo eseguite bene, le varie songs mi sono apparse un pò semplicistiche, poco approfondite.
Da una band di tale esperienza mi aspetto un risultato diverso, segno di un’evoluzione sonora di tutt’altro spessore; qui siamo di fronte ad un prodotto che potrebbe andare bene per un gruppo esordiente, che ancora non ha trovato la propria via maestra.
Ho voluto premiare questo sforzo dei Pestilence, perchè, complessivamente, è un disco death metal che si fa ascoltare; tuttavia, pur non volendo essere troppo cattivo coi decani provenienti dall’Olanda, credo che, quando una band, dopo aver debuttato con un paio di dischi storici, dopo così tanto tempo, non riesce ad avere una propria identità e a suonare una musica che la caratterizzi davvero, abbia davanti a sè una scelta da compiere: continuare a sfornare dischi anonimi o, preferibilmente, passare alla storia, facendosi ricordare da tutti per quanto di buono ha fatto, ormai troppo tempo fa.

 

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10. Rotted – Pestilent tomb – Dark blasphemies Records

Entro in possesso di questo cd grazie ad un regalo di un amico americano che me lo segnala: trattasi di one man band proveniente dall’Illinois, il layout lascia presagire abbondanza di riff e old school a stecca.
In realtà, siamo oltre l’old school, sia per produzione (strisciante e imperfetta come accadeva un tempo), sia per contenuti: all’inizio il disco è di difficile digeribilità, poi, con calma, se ne coglie l’essenza riffeggiante e se ne apprezza sempre più il risultato.
Il nostro amico Dylan Jones (che per la cronaca è titolare di altre due band in solitaria con le quali suona le stesse identiche cose proposte in questo disco) ci sa fare: pezzi come “… And now I rot” (che originalità!) e soprattutto l’ottima “Diseased” (sempre più originale) rappresentano appieno l’essenza del death metal, sono pezzi da far ascoltare ai bambini per fargli capire cosa sono i riff e come si mettono insieme; si chiude con la validissima cover di “Day of mourning” dei Grave, band a cui il nostro eroe dedica evidentemente questo album tributo.
Il disco dei Rotted richiama quel sound grattuggiato e cattivo dei primi novanta, di album che a me piacciono tantissimo come appunto “Into the grave” dei già citati svedesi: vero, non se ne sentiva il bisogno, è innegabile; tuttavia, Dylan Jones ha fatto tutto questo con sentimento e ottima tecnica esecutiva e, solo per questo, il suo sforzo andava, secondo me, segnalato; soprattutto a coloro che, come il sottoscritto, trovano giusto nutrire l’underground più profondo, luogo al quale questo disco appartiene.

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Vi siete persi le migliori uscite di Gennaio? Recuperatele qua! Volete sapere anche quali sono le migliori uscite death metal del 2017? Questo articolo fa per voi!!

Redazione

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