L’Angolo Della Morte: Le 10 uscite Death Metal più significative di Marzo 2018

Nuova puntata dell’Angolo Della Morte! Ogni mese i 10 migliori dischi pubblicati in ambito Death Metal selezionati e sezionati dal misterioso Apparizione79, vero e proprio cultore del genere che in questo speciale recupera gli ascolti di Marzo 2018. Ma non temete: presto scopriremo anche Aprile e Maggio! Rimanete sintonizzati su Tomorrow Hit Today (magari seguendo la pagina Facebook)!

 

Primo mese di primavera che regala agli appassionati uscite a profusione: troverete in questa mia classifica, come sempre, alcuni nomi totalmente sconosciuti anche per gli ascoltatori più informati, accanto ad alcune conferme, da parte di gruppi importanti, che dimostrano lo stato di gran forma del genere e dei musicisti, nonostante le primavere che passano.

Primavere che iniziano ad essere parecchie per il vecchio death metal, anche in considerazione del fatto che resta un genere di nicchia, del quale la maggior parte degli esseri umani ignora addirittura l’esistenza.

E primavere che, ogni volta che passano, si portano via qualcuno o qualcosa: band che si sciolgono, musicisti che cambiano mestiere o ci lasciano per sempre.

Come è successo, proprio durante lo scorso mese di marzo, per Killjoy Pucci, lo storico fondatore e anima di una delle band più importanti del movimento, nonchè una delle mie preferite, i Necrophagia. Tra i primi promotori dell’horror death metal, coi loro testi che raccontano invasioni di zombies e similia, i ragazzi dell’Ohio, in 30 anni di carriera, ci hanno regalato diversi album che fanno parte della storia del genere.

Il campione NBA Lebron James ha detto: “Sono nato nell’Ohio, dove tutti sono abituati a guadagnarsi ogni cosa e, proprio per questo, ho deciso che se vincerò qualcosa lo farò con la squadra della mia città, Cleveland, perchè la gente dell’Ohio merita di vincere qualcosa”. I Necrophagia non hanno vinto l’anello NBA come Lebron coi suoi Cavs, ma sono diventati una delle band più importanti del panorama death metal e, di sicuro, se lo sono guadagnato.

Probabilmente, in futuro, il death metal dovrà fare a meno dei Necrophagia e, per poter riascoltare il loro spettacolare death metal lento, dovremo mettere su il sontuoso “Season of the dead” o il più recente “Whiteworm Cathedral”.

Voglio dedicare questa mia piccola lista a Killjoy e ai Necrophagia, nel ricordo di una delle band più importanti della storia del movimento death metal.

 

1. Demonical – Chaos manifesto – Agonia Records

 

Gli svedesi Demonical arrivano al loro quinto album, inserendo nella line up un nuovo cantante, Alexander Hogborn, che ho apprezzato in una delle mie band preferite dell’underground death metal svedese, i Centinex.
Il neoassunto singer svolge un lavoro eccellente anche qui e la band, inaspettatamente, regala all’ascoltatore il capolavoro che non ti aspetti.
I Demonical ci avevano abituati ad un sound classic death metal e “Chaos manifesto” mantiene le aspettative: tuttavia, fin dalla sountuosa opening track “A void most obscure”, i nostri dimostrano una convincente evoluzione sinfonica in vena swedish anni novanta.
Intendiamoci, i ragazzi pestano di brutto, non siamo davanti ad un prodotto melodico tipo Tribulation, ma ad un album old school death metal, poderoso e moderno, che accanto al vecchio sano e sicuro sound death metal stile Dismember ed Entombed inserisce una vena melodica che ci accompagna per tutto il disco; a tratti mi è parso di sentire l’inarrivato capolavoro degli In Flames “Lunar strain”, seppur in una versione più veloce e brutale.
Oltre alla già citata “A void most obscure”, segnalo la cadenzata “Valkommen undergang”, la sparata “Torture parade” e l’ottima “Death unfaithful”.
Voce possente, chitarre ispirate, basso assassino, tecnica eccelsa e produzione perfetta, in conclusione un grandissimo album, con il quale i Demonical dimostrano che la potenza del classic death metal si può sposare con successo con la melodia che ha reso famose molte band svedesi.
Mi fa piacere che, anche quest’anno, dopo gli Entrails nel 2017, a tenere alta la bandiera dello swedish death metal sia un’altra band che arriva da quell’immenso e sempre prolifico underground.
Un pò di tempo fa ho letto un’intervista al neo-singer della band, Alexander Hogborn; alla domanda del giornalista che gli chiedeva per quale motivo i suoi Centinex non erano mai diventati, al pari di altri gruppi svedesi, dei mostri sacri, pur avendone tutte le caratteristiche, il cantante rispose dicendo che l’underground metal è forte grazie a band come i Centinex che non desiderano diventare famose, come quelle squadre di calcio vincenti non solo grazie ai fuoriclasse ma anche al lavoro oscuro dei mediani e dei difensori.
Vero, tuttavia è bello quando il gol decisivo non lo sigla il solito campione, ma uno di quei terzini che non segnano mai, magari sbucando sul secondo palo dimenticato dagli avversari; allo stesso modo è bello quando a suonare uno dei dischi più ispirati di questa prima parte dell’anno non sono i soliti grandi gruppi ma una band come i Demonical, fieramente e forever underground.

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2. Memoriam – The silent vigil – Nuclear Blast

 

Dopo un anno scarso dall’uscita dell’esordio “For the fallen”, i veterani inglesi Memoriam tornano tra noi con questa poderosa replica intitolata “The silent vigil”: considerato che i nostri non hanno risparmiato le apparizioni dal vivo e che le canzoni del disco sono nello stesso stile di quelle del lavoro precedente, si può facilmente intuire che i pezzi di “The silent vigil” erano già negli strumenti dei Memoriam da parecchio tempo e che la scelta di far uscire due dischi a distanza di poco tempo sia frutto di una decisione della casa discografica.
Come noto, i Memoriam nascono dalle ceneri dei Bolt-Thrower e ne rappresentano alla perfezione l’eredità musicale: come per i pezzi del loro primo disco, anche qui, appare che queste canzoni arrivino da lontano, che abbiano dentro di loro tutta la storia del genere e tutte le caratteristiche che noi appassionati richiediamo ad una band death metal.
“The silent vigil” è lungo ma non annoia mai, la voce del mitico Karl Willets ci accompagna in quasi 50 minuti di cadenzato e poderoso death metal classico, raccontandoci, nei testi, di come il mondo di oggi sia ingiusto e non un gran bel posto dove vivere.
La vena politica dei nostri, già presente in “For the fallen”, conferma l’idea che le songs del presente disco fossero già state composte dai Memoriam in passato; e, come detto, anche musicalmente i due dischi si somigliano: riffosità estrema, parti cadenzate e accelerazioni all’insegna dell’headbanging più furioso, voce rauca e profonda molto chiara e comprensibile, chitarre perfette che ci trascinano di pezzo in pezzo, riff dopo riff; unica pecca: una produzione che, forse volutamente, lascia in secondo piano il lavoro (peraltro ottimo) della batteria, si sentono poco le casse anche a causa del predominio sonoro delle chitarre; e il basso, comunque ben orchestrato, aiuta solo in parte a colmare il gap, dal momento che resta in sottofondo molto spesso, come accade tradizionalmente in prodotti death classici come il presente.
Piccoli difetti in un contesto generale di assoluta eccellenza (a cui contribuisce, non ultima, anche la bellissima copertina); le canzoni mi piacciono sempre di più ogni volta che le sento ed è difficile dire quali siano le migliori. Tuttavia, le mie preferite sono la dura opener “Souless parasite”, “Nothing remains” e “The new dark ages”. Album complessivamente sontuoso, che farà felici gli amanti del death metal, quello classico, con la D maiuscola.

 

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3. Fleshworks – Engine of perdition – Apostasy Records

 

Come noto, la vita è piena di ingiustizie: la maggior parte dei musicisti metal estremi deve guadagnarsi il pane quotidiano svolgendo una comune attività lavorativa, sono pochi coloro che possono vivere di sola musica.
E allora, succede che, lo scorso anno, William Nicholas Tolley, o più semplicemente Bill Tolley, batterista e vera anima degli Internal Bleeding, perda la vita nell’adempimento del proprio dovere di vigile del fuoco del comune di New York. Pochi anni dopo che la sua band aveva dato alla luce uno degli album più belli della storia del death metal (“Imperium”). E mentre “musicisti” leggeri di nessun valore continuano a diventare famosi e ricchi.
Probabilmente, sono state proprio le difficoltà quotidiane ad obbligare questi 4 non proprio giovanissimi ragazzi di Osnabruck, Germania, che suonano sotto il logo Fleshworks, ad attendere quasi 10 anni per uscire con il loro secondo disco, dopo che nessuna casa discografica si era interessata al loro primo lavoro.
Nonostante una carriera non proprio fortunata, i nostri non si sono arresi, mi immagino che abbiano continuato a mettere il massimo impegno e la massima passione che avevano per tenere in vita la loro band e, oggi, la piccola Apostasy Records ha deciso di dargli fiducia e produrre “Engine of perdition”: scelta azzeccata, ci troviamo davanti ad un disco eccellente che non teme il confronto con i prodotti di band molto più famose e quotate.
I nostri suonano death metal classico e lo fanno da maestri: voce possente, batteria devastante, lavoro del basso incredibile e chitarre mai piatte, mai scontate, il tutto eseguito con tecnica perfetta.
Dopo l’eccellente “Death by autopsy”, in cui la band decide di aprire il disco con un pugno sulla faccia dell’ascoltatore, il resto prosegue nella stessa direzione: siamo davanti ad un death metal tipicamente tedesco, con quella potenza furiosa che non lascia respiro, ma con una vena di epicità nelle atmosfere che richiama le migliori band swedish.
Sontuose le cavalcate di “Acclamation to deprivation” e “The moloch”, ancora meglio “Walk the purgatory lane” e, soprattutto, la solenne sviolinata di “Dead men working” con cui il lavoro si conclude.
Il disco è di una potenza assurda, per me una delle migliori uscite death metal di questo inizio anno: i Fleshworks esistono da circa 20 anni, sotto diversi nomi, hanno impiegato un sacco di tempo prima di riuscire a sfornare un album di altissimo livello.
Però, alla fine, ci sono riusciti, e spero che, anche attraverso questa piccola recenzione, il disco dei Fleshworks possa ottenere i riconoscimenti che questa band, fino ad oggi, non ha mai ottenuto.

 

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4. Undersave – Sadistic iterations … Tales of mental rearrangements – Chaos Records

 

Band che arriva dall’underground portoghese, ultimamente garanzia di prodotti di alto livello: dopo l’ottima impressione dell’esordio di alcuni anni fa, ero curioso di vedere che strada avrebbero intrapreso gli Undersave con questo loro secondo sforzo.
Direi che sono rimasto ampiamente soddisfatto da questo “Sadistic iterations…”: i lusitani suonano un death metal molto brutale con tecnica sopraffina e una notevole quantità di idee che rendono i 45 minuti (soltanto 6 lunghe canzoni) del cd estremamente godibili.
Il lavoro più importante viene fatto dalle chitarre, sempre ispirate nella cura del riff e capaci di creare l’atmosfera di brutalità che permea il disco; il resto dell’orchestra è degno compartecipe: batteria furiosa che trascina per tutto il tempo, basso granitico e soprattutto growl gutturale di quelli sontuosi (tipo Avulsed) con doppia voce tipicamente black che ci sta benissimo.
Si tratta di una brutalità moderna: cambi di tempo ritmati e spezzature continue, passaggio dalla velocità al cadenzato senza mai concedere attimi di respiro, assoli indovinati.
In qualche passaggio sembra che i nostri possano virare verso un death metal di stampo svedese, con alcuni accenni di melodia che rendono il lavoro assai vario e convincente; tuttavia, il cuore pulsante del disco è classicamente improntato al death metal brutale. Tutte le songs meritano attenzione, ma segnalo “Peacefully floating in prosperous abyss” e “Hereditary condemnation through immunity” come i due pezzi che mi sono piaciuti di più.
Un disco che consiglio vivamente, soprattutto per il lavoro davvero immenso delle chitarre: è raro trovare un album in cui le chitarre riescono ad essere così varie, tecnicamente superbe, ma allo stesso tempo capaci di essere classiche e piuttosto chiare nel proprio intento.
Ottimo prodotto che, una volta di più, dimostra che esistono band che sono in grado di suonare un death metal moderno, personale, ma allo stesso tempo in grado di rispettare i parametri tradizionali del genere.
Per finire, vi segnalo che il cd è uscito in sole 500 copie, prodotte e distribuite dalla attenta e seria label messicana Chaos Records: da parte mia nulla contro questa scelta, anche se credo che gli Undersave, per tecnica ed idee, meriterebbero l’interesse di un’etichetta più importante.

 

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5. Pemphigoid – Where compassion comes to die – Unsigned

 

Ecco un disco che non piacerà proprio a tutti, ma che io ho gradito tantissimo.
Qualcuno, non ricordo chi, mi ha segnalato questa band proveniente da Nottingham, così, per pochi euri, ho acquistato il cd sulla loro pagina Bandcamp: mille ringraziamenti per il supporto da parte dei non giovanissimi esordienti anglosassoni e dopo pochi giorni mi arriva il pacchetto con dentro lo slipcase e il cd finto green vinyl per capirci.
Anche il sound non è giovanissimo, tutt’altro: i nostri sono evidentemente ispirati dai loro conterranei Carcass, tempi di “Symphonies of sickness”, o dai primi lavori dei polacchi Dead Infection, proponendo infatti un raccapricciante death metal patologico; la produzione non ottimale rende il prodotto ancora più verace e interessante, le chitarre e il basso grattano il cervello dell’ascoltatore e il classico growl del cantato richiama profondità oggi dimenticate dalla ricerca di melodiche deviazioni da parte di molti singers dell’era contemporanea.
Nei 28 minuti di stomachevole aggressività che i Pemphigoid regalano ai 100 fortunati sul globo che sono entrati in possesso del cd (a parte chi si ascolterà la versione digital che per me ha un valore relativo) non c’è alcun accenno di modernità o di abbandono, anche momentaneo, della brutalità.
Il disco è death metal inglese di quello vero, antico, sentito, ben suonato: ecellente la opening track “Surgery” dove i nostri mettono le cose in chiaro sin da subito, notevoli anche la successiva “Necrolatry” e la conclusiva title track; ma le songs sono tutte cadenzate, dure, poderose, con quel tocco di patologia vintage difficile da trovare nei prodotti di oggi, sia nella musica che nel layout.
Ne esce un lavoro di valore che, tuttavia, consiglio soltanto ai veri appassionati del genere, quelli che si riascoltano (come il sottoscritto) “Reek of putrefaction” o “Scum” e ci trovano sempre qualcosa di nuovo e di eccellente, le fondamenta di un grande edificio che ancora oggi continua a crescere e sul quale i Pemphigoid, con questo disco, hanno il merito di aver posto la propria mattonella.

 

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6. Replicant – Negative life – PRC Music

 

Tipica band emergente della East Coast americana, capace di mescolare con successo diversi stili di death metal creando un sound complicato, per ascoltatori in grado di comprenderlo.
I nostri provengono dal piccolo New Brunswick, patria peraltro di diverse band che hanno dato tanto al genere negli anni d’oro, a partire dagli Human Remains, e, già dal nome, si comprende che i ragazzi americani sono dei grandi appassionati di Blade Runner e Ridley Scott in generale
Da un punto di vista musicale emerge un pesante tributo ai secondi Gorguts, ma non difettano le parti classic death che richiamano gli Obituary soprattutto, e alcune sparate che sfociano nel brutal quasi grind.
Tecnica esecutiva di alto livello, produzione precisa e senza macchie, l’album scivola via intrigante e piacevole nonostante presenti, come detto, una certa complessità compositiva che, tuttavia, non diventa mai esasperata.
Pezzi migliori, per me, “Inescapable grief”, “Ocean of dust” e “The frail”, canzoni nelle quali la band riesce pienamente a muoversi all’unisono, creando un muro sonoro notevole.
Queste nuove realtà death metal sono meritevoli della nostra attenzione, sono spesso formate (come nel caso dei Replicant) da ragazzi giovani, che intendono proporre il genere senza ripudiare i classici ma, allo stesso tempo, cercando di personalizzarlo, di renderlo moderno.
Se dovessi fornire un termine di paragone con una band di nuova generazione, direi che il disco, pur con le dovute differenze, mi ha ricordato il sound dei neozelandesi Ulcerate: tecnico, veloce, vagamente industriale senza dimenticare di essere death metal classico; insomma, album di nicchia a cui dare fiducia.

 

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7. Zombie riot – Reign of rotten flesh – Unholy fire Records

 

Altra band tedesca (da Hannover in questo caso) che arriva al disco di esordio, nonostante l’età non proprio imberbe dei componenti.
A partire dal layout e dal logo e proseguendo con i testi ispirati dalla tradizionale filmografia horror-zombie, si comprende subito che i nostri sono dell’idea di suonare qualcosa di classico, roba che richiama i riff e l’oscurità dei mostri sacri americani, Autopsy in testa; tuttavia, come accade per molte delle band tedesche di nuova generazione, anche gli Zombie Riot riescono a creare un proprio sound che, attraverso una furia cadenzata e incalzante, assume una connotazione propriamente teutonica.
In questo caso, non esistono accenni di melodia, ma il lavoro delle poderose chitarre riesce a rendere i pezzi tutti molto differenti l’uno dall’altro, interessanti e dotati di personalità; la voce è brutale, gutturale e strisciante stile Chris Barnes dei Cannibal Corpse per fornire un termine di paragone noto a tutti.
Il disco inizia con la possente “Nuclear zombie massacre” e prosegue con pezzi convincenti e giustamente riffosi: tra gli altri spiccano, oltre alla già citata song d’esordio, la title track e l’ottima “Colossus realm” dove i nostri sfornano un paio di riff degni degli Autopsy e una serie di stoppate che farebbero impallidire Moses Malone dei tempi d’oro (mi scuso per la citazione cestistica).
Complice la produzione eccellente e la tecnica notevole di tutti i membri della band, il disco risulta ottimo; non siamo davanti a qualcosa che rimarrà nella storia, però i debuttanti hanno le idee chiare, hanno deciso di suonare del sano old school death metal senza scendere a compromessi con niente e con nessuno.
E lo hanno fatto in modo eccellente.

 

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8. Befouled – Refuse to rot – Great Dane

 

 

Siamo davanti ad una delle rare proposte death classiche che provengono dalla Norvegia, terra solitamente popolata da orde inferocite di seguaci di Burzum, Darkthrone, Mayhem e compagnia bella.
I Befouled suonano un death metal cavernoso e possente che rimembra la riffosità dei Bloodbath e la velocità delle bands americane della prima ora.
Produzione eccellente e tecnica dei musicisti più che buona, tendente all’ottimo, il disco dura 40 minuti che finiscono per volare via rapidi e piacevoli: la solidità dei pezzi veloci è data dalla volontà di non rinunciare mai a coltivare il riff che sta alla base del pezzo, le parti ritmate appaiono indovinate e ben collegate con il resto, la voce del cantante passa dal classico growl allo scream lasciando l’ascoltatore sempre ben contento di quello che ha sentito.
Il meglio l’ho trovato nella poderosa “Tales from the tomb”, nella veloce “Feast on flesh”, dove segnalo il riff sparato con cui il pezzo giunge a conclusione, e nella melodiosa “Warpath” (bellissimo e prolungato assolo accompagnato da riff buono per scatenare l’headbanging), ma sono molte le canzoni davvero ben riuscite.
Disco che, nel complesso, non può essere definito nè un capolavoro, nè un pezzo da avere a tutti i costi nella propria bacheca, ma vi invito a buttarci un ascolto se vi resta un pò di tempo, anche solo per premiare lo sforzo di questi ragazzi all’esordio.

 

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9. Monotheist – Scourge – Prosthetic Records

 

Tutte le volte che mi avvicino ad un lavoro propagandato come “progressive”, alla fine dell’ascolto, provo una sensazione di insoddisfazione.
Forse perchè lavori del genere devono essere sentiti con estrema attenzione, forse perchè mi pare ci sia sempre qualcosa di incompiuto, probabilmente perchè è maledettamente difficile suonare questo tipo di musica ed essere davvero convincenti.
Lo stesso mi è accaduto con “Scourge”, atteso esordio dei pompatissimi Monotheist da Orlando, Florida.
Ho deciso di segnalare questo disco perchè rappresenta uno sforzo importante da parte dei componenti della band e perchè, trattandosi di un esordio, lascia intravedere prospettive future.
I nostri suonano death progressivo, appunto: l’album è fortemente ispirato al sound antico di due mostri sacri provenienti dalla stessa zona dei Monotheist, gli Atheist e i Cynic, anche se ho percepito una vena black-caotica che mi ha ricordato gli inarrivati album dei Bal-Sagoth anni novanta; le parti classiche sono particolarmente brutali, a livello Suffocation o, per citare una band nordamericana (anche se canadese per essere precisi) con caratteristiche brutali minimamente più progressive, Criptopsy, e convincono appieno l’ascoltatore.
Come sempre, rimango maggiormente perplesso difronte alla ricerca del progresso: l’inutile strumentale “The image”, la conclusione poco convincente di “Scion of darkness” e quella totalmente astrusa di “Abominable acts” e l’intro della title track.
Non vorrei essere frainteso: esistono, nel disco, parti melodiche ben strutturate e ben inserite che si sposano ottimamente con altre più brutali, ci sono anche deviazioni strumentali o semisinfoniche di assoluto valore.
Tuttavia, dopo aver ascoltato cosa sanno fare i nostri nella poderosa e devastante opener “The grey king”, dove di progressivo si trova ben poco, mi chiedo per quale motivo non compongano pezzi più brevi (l’album dura più di un’ora, troppo) e non approfondiscano tematiche musicali che si affacciano nella già citata opener, nella (troppo) lunga blackeggiante “Desolate, it mourns before me” e nella notevole “Scion of darkness” (conclusione a parte).
Mi rendo conto che questo genere di dischi tenda a far parlare molto, molto di più di un lavoro diretto e tradizionale, e spesso si è portati a trovare difetti, evidenziare aspetti che non vanno; proprio per questo motivo ho deciso di considerare il lavoro dei Monotheist degno di nota: proprio perchè è facile essere severi e dimenticarsi che, in realtà, l’ora di ascolto passa attraverso spunti intriganti e invitanti momenti di brutalità davvero ben eseguita.
Ci sono tutti i presupposti perchè i Monotheist migliorino il proprio sound in futuro, sviluppando quanto di buono c’è in questo debutto e senza nutrire quanto lo è meno.

 

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10. Rivers of nihil – Where owls know my name – Metal Blade

 

Questa band proveniente dalla prolifica Pennsylvania arriva al terzo album decidendo di mutare il proprio sound verso una forma assai discutibile di progressive death metal.
I nostri nascono come band tech-death e questo è il genere che si trova nei primi due lavori, dei quali il più recente “Monarchy” rappresenta la migliore espressione. Quello che ho trovato poco serio è il fatto che il nuovo disco dei R.O.N. viene pubblicizzato in pompa magna dalla Metal Blade come uno dei più importanti lavori tech-death dell’anno: vero che ci sono delle canzoni con un’anima death, ma il sound della band è evidentemente virato verso qualcosa di diverso.
Infatti, i nostri hanno deciso di inserire nei pezzi stacchi elettronico/atmosferici che puzzano tanto di new-metal o jazz/fusion con uso di sassofono che, al sottoscritto, sono apparsi francamente ridicoli e, soprattutto, l’utilizzo, accanto al growl, del cantato pulito, che, piaccia o no, nulla ha a che spartire con il death metal.
Non dico che il disco non presenti spunti interessanti, semplicemente che trovo scorretto non informare l’ascoltatore di quello che si troverà davanti.
Valutando le songs da un punto di vista death metal (quindi tralasciando le disconnesse parti jazz), siamo davanti ad un tech-death non troppo sparato, in cui la velocità e profondità del suono è data soltanto dall’uso costante del doppio pedale da parte del batterista, piuttosto che dai riff di chitarra, che, a differenza di quanto accadeva nei primi dischi, sono piuttosto piatti, monotoni e tecnicamente appena sufficienti.
Le canzoni che mi hanno lasciato maggiormente soddisfatto sono “Old nothing”, “The real change” e “Subtle change”, nelle quali sono riuscito ad assaporare una maggiore consistenza rispetto al resto del disco, che finisce per scivolare via lasciando nell’ascoltatore un senso di incompiuto.
Ho deciso di segnalare l’album in questione per due ragioni: in primis per evitare che qualcuno possa pensare di trovarsi davanti ad un lavoro di classic tech-death come sbandierato dalla band e dalla sua casa discografica, e, anche, per provare a dare una chance futura ad un gruppo che, pur partito bene coi primi due dischi, forse oggi, rischia di uscire dai perimetri del genere per ricercare un sound diverso, troppo complicato e, in questo lavoro, davvero poco convincente.
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L’Angolo della Morte è una rubrica mensile dedicata alle uscite più significative del Death Metal. Seguitela qui: https://www.tomorrowhittoday.it/tag/langolo-della-morte/

Qui la Top 10 di Febbraio: https://www.tomorrowhittoday.it/2018/05/06/langolo-della-morte-le-10-uscite-death-metal-piu-significative-di-febbraio-2018/

Qui la Top 20 del 2017: https://www.tomorrowhittoday.it/2017/12/31/20-dischi-death-metal-del-2017/

Redazione

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