L’Angolo Della Morte: le 10 uscite Death Metal più significative di Maggio 2019

A cura di Apparizione 79

I mesi primaverili sono sempre quelli che mi impegnano di più. Dopo un Aprile che è trascorso leggermente sotto tono, con maggio la produzione deathmetallica mondiale è tornata ad essere numericamente rilevante, rendendo il mio “lavoro” davvero arduo.

Non posso negare che l’esclusione di alcuni dischi da questa mia lista è stata piuttosto sofferta, ma, come si apprende con l’esperienza, la vita è fatta di scelte che sapremo giuste o sbagliate soltanto nel futuro.

Come tutti , ho cambiato le mie decisioni e ho preso diverse posizioni: una delle mie scelte, forse inconsapevole, forse naturale, è stata quella di ascoltare heavy metal, di appassionarmi al mondo del metallo fin da ragazzino.

Oggi, a distanza di tanto tempo, non solo non la rinnego, ma mi ritengo fortunato per averla fatta: a volte, penso che la gran parte dell’umanità si perda qualcosa ad non apprezzare la bellezza dell’heavy metal.

Ovviamente la gran parte dell’umanità se ne frega altamente, ma a me basta che questa mia considerazione venga compresa da quelli che, come me, fanno parte della fortunata minoranza dei figli del metallo.

Spero che anche la nostra lista di Maggio 2019 possa essere apprezzata da qualcuno.

1 . Possessed – Revelations Of Oblivion – Nuclear Blast

Quando il diciassettenne Jeff Becerra e i suoi compagni di giochi decisero di mettere insieme un pezzo dal nome “Death Metal” nell’ormai lontanissimo 1985 non immaginavano che quella canzone sarebbe diventata il manifesto del genere e sarebbe rimasta nella testa e nei cuori di noi appassionati per sempre. Non immaginavano che il loro disco di debutto “Seven Churches” e il di poco successivo “Beyond The Gates” sarebbero diventati i primi esempi di death metal, i primi primordiali vagiti del genere a metà degli anno ottanta, i due lavori nei quali i critici ritengono di trovare la consacrazione del death metal e il superamento delle commistioni, in quegli anni ancora pesanti, col thrash. Non immaginavano che un’intera generazione di artisti e di semplici appassionati sarebbero sempre stati grati a quei quattro teenager brufolosi della periferia povera di Cisco.

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E io non immaginavo che Jeff ci avrebbe riprovato: dopo i primi due dischi, la creatura si sciolse, provò a tornare in vita all’inizio dei nineties (senza Becerra) e venne ricreata dallo storico leader nel 2007 senza tuttavia produrre alcunché di nuovo da allora ad oggi e limitandosi a raccolte (inutili) di materiale e a qualche apparizione dal vivo.

Dei membri originari del combo è rimasto solo il vecchio Jeff che, a differenza degli esordi, si cimenta solo alla voce non potendo più suonare il basso dopo essere rimasto paralizzato agli arti inferiori in seguito ad una sparatoria in cui fu coinvolto nei primi anni  duemila; accanto a lui ci sono tre musicisti esperti che hanno il tipico background Possessed.

Non pensavo che il disco mi sarebbe piaciuto: invece, dopo l’eccellente intro in stile horror movie anni ottanta, il primo riff della prima song (“No More Room In Hell”) mi ha fatto subito capire che questi 30 anni per Becerra e soci non sono davvero passati, nessuna ruggine nella composizione, nessuno sconto alla vena tirata e assassina che solo quel thrash/death pionieristico di quel periodo era in grado di avere, voce putrida e strisciante come alle origini, chitarre grezze e dirette, basso inudibile, batteria lanciata a mille.

Adoro questa musica quando a suonarla sono i pionieri: sanno cosa fare e conservano quella sana stringa autentica di allora, sono dei maestri e lo saranno per sempre anche se restano in silenzio per decenni; l’headbanging si scatena furioso dalla prima nota all’ultima, i compromessi sono a zero, l’ignoranza totale: in band come i Possessed c’è il rock duro allo stato puro, ci sono i Motorhead, i Black Sabbath, i Celtic Frost, tutta la tradizione punk americana, la concretizzazione delle prime deviazioni verso il maligno da parte dei Venom, le note di Slayer e primi Metallica; in questa band è riassunta l’essenza di quel momento musicale nel quale le band cercavano di stupire, di essere più cattive e veloci dei propri predecessori senza dimenticarsi di dover suonare il rock per non essere presto dimenticate.

Non credevo che questo disco potesse stare accanto, senza sfigurare, a “Seven Churches” e a “Beyond The Gates”: invece è così, ascoltate la furibonda sassata di “Shadowcult”, la poderosa violenza di “No More Room In Hell”, la grezza cattiveria sparata di “Ritual”, senza dimenticare che tutti i pezzi sono ottimi.

Inaspettato e gradito ritorno che nessun appassionato deve lasciarsi sfuggire.

Sia per il valore intrinseco della proposta di oggi, sia per non dimenticarci di quanto fatto in passato dal vecchio Jeff: per non dimenticarci che Jeff, quando era un ragazzino problematico che faceva disperare la mamma perché, invece di studiare, spaccava le orecchie dei vicini di casa con quella musica da tossici, ha composto, insieme ai suoi amici di strada, “Death Metal” e tutto il resto; se non lo avesse fatto, forse oggi nessuno parlerebbe della musica che tutti noi ascoltiamo ed amiamo o, quanto meno, non ne parlerebbe allo stesso modo.

2 . Nocturnus AD – Paradox – Profound Lore Records

Torna sulle scene uno dei più importanti e sfortunati musicisti della scena death metal di Tampa degli anni novanta, il batterista/singer Mike Browning, membro fondatore della galattica navicella Nocturnus, che, nei primi nineties, ci ha regalato due sontuosi esempi di death metal progressivo con tematiche sci-fi; tali aspetti resero i Nocturnus una band di grande innovazione all’interno del panorama death metal di quegli anni.

Il presente progetto è quanto di più vicino ai vecchi Nocturnus sia oggi in vita: le tormentate vicende che hanno avuto per protagonista il gruppo nel corso degli anni hanno determinato la sostanziale dipartita dalla scena della band stessa e di tutti i musicisti che la componevano.

Lo stesso Browning (che ha suonato anche per i Morbid Angel e per altre band importanti) non ha mai trovato una sua reale e definitiva collocazione rimanendo, di fatto, sempre legato all’unico disco che i suoi Nocturnus hanno varato con il proprio principale membro fondatore nella line up, ossia il mitico “The Key”.

Che la band non sia nata sotto una buona stella è confermato dalla scarsa diffusione che il disco ebbe ai tempi e dai numerosi litigi che hanno contraddistinto i rapporti tra i membri della band.

Il lavoro di oggi rappresenta lo sforzo estremo di Browning per provare a continuare a tessere quella tela iniziata un quarto di secolo fa e bruscamente interrottasi poco dopo: Mike ci aveva già provato nel 1999, senza successo, per poi riprendere il discorso nel 2013 ma doverlo abbandonare di nuovo per il decesso improvviso di Richard Bateman (basso) e Gino Marino (chitarra), suoi due fedeli alfieri e compagni di tante battaglie stellari nella galassia abitata dai Nocturnus (ai due amici perduti per strada Mike dedica il disco, rammentando che, nel lontano 1987, la band prese forma grazie al loro supporto).

Oggi, tirando dentro musicisti di spessore (su tutti il bassista ex Obituary Daniel Tucker), Mike è riuscito nell’intento di riprendere da dove tutto si era interrotto, da “The Key”, dimostrando al mondo metallico che quel disco era suo innanzi tutto, per idee, composizione, musica, colori e spirito.

Paradox” riesce a ricreare quelle atmosfere tipiche della band, quel sound crudo e malefico ma, al tempo stesso, tastieroso e sognante; tutto ciò partendo dalla copertina e continuando con l’incipit robotico della prima song.

E così, da grande amante della band quale sono (anche del secondo disco “Thresholds”, nel quale tuttavia Browning era già fuori dal gruppo), non posso non risentire nelle note del presente disco una musica che mi rimanda lontano nel tempo, quando per la prima volta ascoltai la cassetta Earache di “The Key” e canzoni come “Andromeda Strain”, “Droid Sector” e “Lake Of Fire” mi sono entrate per sempre nella testa.

Oggi, forse, il lavoro risulta un pochino manieroso: gli intermezzi robotici tra una song e l’altra sono davvero antichi anche se al sottoscritto piacciono molto; l’uso massiccio delle tastiere non evoca sonorità particolarmente innovative come allora, andandosi ad inserire in canali già navigati; la durezza del riffing è decisamente vecchia scuola.

Tuttavia, non possiamo che ascoltare soddisfatti la violenta battaglia interstellare di “The Return Of The Lost Key”, la sognante atmosfera da pioggia meteorica di “Seizing The Throne” e la persuasiva armonia tastierosa di “Procession Of The Equinox”, song migliori del disco; la voce di Mike Browning risulta cattiva e strisciante come nella miglior tradizione, le chitarre duellano sontuose e mai scontate, le tastiere disegnano melodie spaziali e la sezione ritmica non perde un colpo: siamo davanti ad un grande disco.

I Nocturnus, per me, sono tra i maestri del death metal e in questo lavoro tornano potenti e scintillanti come una supernova: non importa se sono passati anni luce da quando Mike e i suoi compagni salirono per la prima volta sulla loro astronave, i Nocturnus conservano il potere di farmi tornare il ragazzino che sognava con la loro musica; anche questa volta ci sono riusciti, sono riusciti a farmi viaggiare in galassie infinite, alla ricerca di mondi perduti abitati da creature fantastiche e da intelligenze artificiali.

Sull’assolo di “Apotheosis” e sui riff di “Aeon Of The Ancient Ones” il cd si avvicina al suo epilogo facendomi immaginare battaglie spaziali, raggi laser e pianeti sconosciuti collocati in sistemi inesplorati: non so se i Nocturnus avranno la forza per nuovi capitoli della loro tormentata esistenza discografica, per adesso accontentiamoci di questo bellissimo disco e diamo il bentornato sulle scene agli indiscussi padroni delle stelle. 

3 . Body Harvest – Parasitic Slavery – Comatose Music

Forse non tutti condivideranno la mia scelta di collocare questo disco al terzo posto della classifica mensile in presenza di altri lavori che a molti, forse, sono piaciuti di più.

Tuttavia, il mio palato deathmetallico non può che restare soddisfatto quando nello stereo passa della roba simile a quella che i britannici Body Harvest, qui al secondo album intero, sono stati capaci di produrre: siamo di fronte ad un death metal devastante, nel quale l’impatto sonoro la fa da padrone prendendo a pugni l’ascoltatore dall’inizio alla fine.

Il sound dei nostri si compone di chitarre taglienti e velocissime che creano un muro sonoro sparatissimo ma sempre chiaro ed intelligibile, del lavoro sontuoso del basso, di una batteria lanciata a velocità supersoniche con blast beat a ripetizione e di una voce growl profonda e potente alternata con il classico scream.

La forza di prodotti come quello messo insieme dai ragazzi di Bristol sta nella capacità di andare a velocità assassine senza mai abbandonare i canoni del death metal, senza mai diventare grindcore: gli assoli sono veloci ma sempre rockettosi, i blast beat accompagnano sempre il riffing e non sono finalizzati esclusivamente alla velocità, la voce mantiene un tono comprensibile e chiaro.

Ne viene fuori, come detto, un sound devastante, di pura potenza e impatto: le canzoni non hanno un momento di pausa e si somigliano tutte tra loro (elemento che rende il prodotto ancora più granitico e interessante per il sottoscritto) creando l’effetto di un tappeto sonoro che non lascia respiro.

Siamo davanti a poco meno di 40 minuti che vanno ascoltati tutti d’un fiato, ma che sono inevitabilmente dedicati a coloro che apprezzano un sound senza respiro, di grande impatto ed estremamente violento.

Non segnalo le canzoni migliori perché non ci sono: il disco va ascoltato nel suo complesso, senza stare a pensarci troppo su; i nostri mettono insieme una gragnuola di pugni nello stomaco e in piena faccia, bisogna solo avere la forza di incassarli senza andare al tappeto.

Trovo le band inglesi sempre tra le migliori del globo: forse per il fatto che da queste parti l’heavy metal ha trovato le sue vere origini, forse per il fatto che i sudditi di Sua Maestà non hanno mai avuto problemi di facciata e anche nell’arte musicale suonano quello che li aggrada senza stare a farci troppi ragionamenti sopra.

Alla fine il risultato è che questa band di Bristol, semisconosciuta, ci sa fare: album furioso dalla forte personalità distruttiva. Bello, imperdibile per chi ama impatto e velocità.

4 . Krypts – Cadaver Circulation – Dark Descent Records

I finnici Krypts si presentano al loro terzo full lenght più in forma che mai: i nostri, prodotti dalla etichetta del Colorado Dark Descent, specializzata in death metal di qualità, sprigionano sonorità death/doom particolarmente profonde e cavernose che, già a partire dalla prima bellissima song “Sinking Transient Waters” ci fanno immergere nel mondo di desolazione e sofferenza che i nostri sanno disegnare.

Il presente sforzo si differenzia dai due precedenti e, secondo me, segna un passo avanti della band nella composizione, nel sound e nella resa in generale della propria musica.

Siamo davanti, come detto, ad un death/doom molto cupo e sentito, nel quale le parti più veloci non mancano e sono caratterizzate dalla poderosa violenza del ritmo; il sound dei nostri si distacca dalle classiche proposte scandinave, delle quali conserva soprattutto l’atmosfera cupa e tenebrosa.

Il disco si dipana potente tra furibonde e atmosferiche parti rallentate nelle quali il lavoro incalzante e disturbante del basso rende il sound lugubre e sofferente e tra cavalcate degne dei mostri sacri del genere nelle quali la precisione del batterista regge il pezzo e permette alle chitarre di disegnare le proprie trame di orrore e perdizione.

Il resto lo fa la voce, durissima, bassa e gutturale pur restando sempre intelligibile.

I nostri ci allietano per circa 37 minuti con il loro orchestrale death/doom della tradizione, compiendo la scelta di comporre pochi (sette) pezzi lunghi, che, a dispetto della durata, però non accennano mai neppure lontanamente ad annoiare.

Band di notevole personalità che sa passare dal tempo maestoso e incalzante alla parte più diretta e misurata nei toni senza perdere mai di vista la strada maestra da percorrere.

Ne esce un disco di grandissimo valore che consiglio vivamente a tutti gli appassionati.

Tra le songs migliori la opener (già citata) “Sinking Transient Waters”, la doomeggiante e potentissima “The Reek Of Loss” e la cattivissima “Vanishing”.

Ciò che sorprende è la capacità della band di impreziosire il proprio sound rispetto al (comunque ottimo) passato: non resta che assaporare il disco con calma e attendere che i finnici Krypts tornino in sala per registrare un nuovo disco che, ne siamo certi, sarà in grado di stupirci positivamente come accaduto con il qui presente “Cadaver Circulation”.

5 . Fleshgod Apocalypse – Veleno – Nuclear Blast

Nonostante i pesanti cambi di formazione, i romani Fleshgod Apocalypse riescono a mantenere un alto livello compositivo ed esecutivo, ma soprattutto riescono a conservare la propria impronta musicale.

Di solito, quando una band perde pezzi importanti come vocalist e chitarre, il risultato è, nella migliore delle ipotesi, un inevitabile cambiamento dell’approccio musicale.

Cosa che non è accaduta con il nuovo disco dei FA che va a rievocare sonorità care ai nostri durante tutta la loro carriera, a partire dagli esordi di “Oracles” e “Mafia”; nel lavoro di oggi c’è tanto anche dell’ottimo “Agony”, ma, in definitiva, ho trovato un qualcosa in più che mi ha fatto preferire questo disco ai predecessori.

Ho sempre seguito con attenzione la parabola dei capitolini ma non ne sono mai stato un accanito sostenitore: trovo il sound dei nostri a volte troppo bizantino, capace di creare un eccellente death metal degli anni duemila ma al tempo stesso di complicarlo inutilmente con barocchi arzigogoli compositivi o con inserimenti di strumenti estranei al rock/metal (pianoforte) troppo preponderanti.

Bene, con “Veleno”, sembra che i FA mi abbiano letto nel pensiero e abbiano deciso di correggere l’impostazione del proprio sound esattamente nella direzione che avrei tracciato io stesso: chitarre più alte e finalmente lasciate libere di esprimere la violenza che i nostri sono capaci di sprigionare con il proprio sound, eliminazione pressoché totale della voce pulita (davvero troppo presente in passato), pianoforte utile alla bisogna ma mai protagonista; bene la voce femminile che rende i pezzi sinfonici e sognanti, bene il fatto che i nostri provino a tutti anche la loro capacità di andare più lenti (nelle parti veloci la furia dei blast beat è dominante e rappresenta uno dei marchi di fabbrica che preferisco della band) ed essere addirittura melodici utilizzando gli strumenti classici del death metal.

Ne esce un bel disco di death metal moderno, davvero ispirato e sensato, nel quale non si trovano passaggi a vuoto ma pezzi di assoluto interesse e valore tra cui segnalo “Sugar” (già lanciata come singolo), la melodiosa “Monnalisa” e la violenta “The Day We’ll Be Gone”.

Alla fine, i nostri sono stati in grado di tenere botta nonostante le vicissitudini di formazione e varare un bel disco che merita molto più che un semplice ascolto.

Il tema centrale del disco (nei testi) è appunto il veleno: vengono narrati episodi nei quali l’uso del veleno è passato, per vari motivi, alla storia; interessante, come lo è il sound di questo gruppo che, con il presente disco, si colloca, secondo me, tra quelle band che stanno diventando una certezza nel genere e che tutti noi appassionati seguiamo con piacere nella propria evoluzione discografica e compositiva, sperando sempre che sopravvivano al passare del tempo e ai veleni che la vita ci impone di ingerire.

6 . Reckless Manslaughter – Caverns Of Perdition – F.D.A. Records

La città di Herne, luogo dal quale provengono i Reckless Manslaughter, è uno dei tanti anonimi centri abitati collocati nel bacino della Ruhr, zona di industria metallurgica ed estrattiva, zona nella quale le località si susseguono lungo la pianura che circonda il fiume Reno senza soluzione di continuità per formare uno degli agglomerati urbani più grandi del pianeta.

Come tutte le zone a forte vocazione industriale, anche la Renania non è luogo da turisti: le città sono grandi, moderne, operose; la gente seria e lavoratrice come si conviene per chi è abituato a lavorare in fabbrica o in miniera; le trasferte calcistiche, da queste parti, non sono mai state uno scherzo, da Dortmund a Colonia, da Gelsenkirchen a Moenchengladbach, da Dusseldorf a Leverkusen.

E anche il death metal dei RM, band qui al terzo full lenght e che il sottoscritto segue con interesse fin dagli esordi, è contraddistinto da una vena tipicamente teutonica, derivante dal fatto di essere un death metal suonato in maniera seria e potente come si conviene per una band forgiata nell’acciaio prodotto dalle industrie metallurgiche.

L’album scivola via concreto e poderoso senza mai annoiare: i nostri, nonostante un lungo silenzio dal loro ultimo full lenght (silenzio interrotto soltanto da un paio di split), non hanno ruggine sui loro strumenti; le chitarre stridono e duellano come da tradizione, la batteria non perde un colpo e sa disegnare possenti trame di blast beat e doppio pedale, il basso serve perfettamente l’oscura linea sonora che caratterizza il gruppo, la vociona growleggia da par suo ispirata e poderosa.

Nel complesso il disco non ha passaggi a vuoto, la linea compositiva sa mantenersi interessante per tutta la durata dell’album che, come detto, non annoia neppure per un istante; tra le song di maggior interesse metterei “Vaporized Crucifix”, “Into Unknown Caverns” e “Funeralmaster”, pezzo lunghissimo (oltre i 10 minuti) particolarmente intrigante per le tetre melodie e i numerosi cambi di tempo che rendono la song molto bella e mai scontata nonostante la durata importante.

In conclusione, disco di valore, disco che segna il ritorno convincente sulle scene di una delle più interessanti realtà classic death metal provenienti dalla superprolifica Germania.

Disco che ci rimanda alla tradizione più bella del genere senza dimenticare di doversi collocare nell’era moderna.

Disco di antico death metal operaio forgiato nell’acciaio; disco di bellissimo death metal potente e diretto che coloro che amano il genere non dovranno lasciarsi sfuggire.

7 . Nekroi Theoi – Dead Gods – Prostethic Records

Dalla Florida ecco in arrivo uno dei più interessanti album brutal di questa prima parte del 2019: tutto ciò per merito del sodalizio chiamato Nekroi Theoi (in greco divinità morte), un gruppo giovane creato da meno di cinque anni e composto da ragazzi sotto i 30 anni, a dimostrazione del fatto che la scena death metal floridiana non vive soltanto rimembrando i fasti del passato.

I nostri, dopo una intro di stampo più black metal, iniziano a sparare colpi di mitragliatrice precisi e ben indirizzati lasciandoci intendere da subito la diretta attitudine brutale della band: batteria furiosa, chitarre in tirissimo, voce gutturale e basso duro come l’acciaio.

Gli intenti distruttivi dei nostri vengono abbinati con aperture melodiche di valore e con parti rallentate crude e disturbanti.

Il gruppo si colloca nella moderna ondata death metal americana (per la precisione della East Coast), con particolare propensione a quel filone di death metal piuttosto duro e veloce che sfocia spesso nel blast beat. Le principali muse ispiratrici dei NT sono di certo Dying Fetus, Misery Index e Pig Destroyer, anche per la scelta (che apprezzo) di raccontarci le ingiustizie del mondo in cui siamo costretti a vivere nella speranza di renderlo un giorno migliore per noi e per le generazioni a venire.

La forza di un prodotto di nicchia come il presente si trova nella capacità di proporre il genere in modo credibile, senza troppi fronzoli o deviazioni inutili dalla via principale, ma, al contempo, essendo in un certo senso moderni e progressivi.

La tecnica dei ragazzi è notevole e spicca soprattutto nelle ispiratissime parti lente con tappeto di doppia cassa, la distorsione della voce rimanda a tempi lontani e gloriosi (primi dischi dei Suffocation, Cannibal Corpse e compagnia) quando il sottogenere trovò i propri punti di riferimento validi ancora oggi.

La notevole varietà compositiva ci regala un disco lungo (oltre l’ora di musica mai banale e noiosa) e variegato, nel quale alcuni episodi hanno suscitato il mio interesse più di altri: vi segnalo la incipiente brutalità di “The Foul Eucharist” (primo vero pezzo del disco dopo una lunga intro), la sognante diabolica cattiveria di “Empty Glory” e la ballata brutal finale “Dead Gods” con la quale il gruppo decide di chiudere il proprio sforzo all’insegna del progresso e dell’ispirazione particolare.

Nel complesso un ottimo disco di esordio, nel quale il sottoscritto non ha trovato particolari difetti se non quello di appartenere comunque ad un sottogenere piuttosto definito e, quindi, inevitabilmente destinato a piacere non a tutti.

Lo sforzo di questi giovinastri va premiato: nello stesso mese in cui Mike Browning ha ridato voce e vita ai suoi Nocturnus, una della band originarie del movimento death metal floridiano, fa piacere pensare che non è finito tutto con il passaggio di quella generazione, ormai lontana, ma che il messaggio del metallo della morte ha trovato i suoi eredi moderni anche nel luogo in cui il genere ha visto la luce tre decadi or sono. 

8 . Entrapment – Imminent Violent Death – Dawnbreed Records

Dieci anni fa il polistrumentista di Groningen, Olanda del Nord, Michel Jonker diede alla luce il suo progetto più importante in una carriera all’epoca già più che ventennale e non troppo fortunata: gli Entrapment appunto.

Il deathmetaller olandese ha sempre composto tutto e suonato tutto da solo, servendosi di un pugno di suoi paesani per gli show dal vivo.

Bene, oggi, dopo dieci anni di attività e quattro full lenght oltre a numerose uscite minori, Jonker ha deciso di deporre le armi e mettere la parola fine a quello che è stato il progetto musicale più importante della sua lunga carriera: lo ha fatto nel modo più diretto possibile, suonando un ultimo disco (il qui recensito “Imminent Violent Death”) che è un po’ un riassunto della produzione degli Entrapment nel corso della loro esistenza.

La band ha sempre proposto un sound fortemente derivativo (cosa che noto accadere molto spesso con le one man band che difficilmente si avventurano in territori inesplorati), in parte (e in via maggioritaria) dai grandi mostri sacri svedesi del passato, in parte da quanto giunto tra noi da oltreoceano tempo addietro e in parte dai conterranei e maestri del death/doom Asphyx.

Che dire, il qui presente ultimo sforzo di Jonker a me è piaciuto: niente di innovativo ma song di forte impatto, nelle quali il sentimento di desolazione e cattiveria prevale su sonorità eccessivamente rockettose e death n’roll che avevo riscontrato nel precedente disco (“Through Realms Unseen” che non mi era piaciuto).

Molto bella l’americanoide opener “Mortality Unleashed”, bene la asphyxeggiante “Incantation Of The Grotesque” e la possente “Sacrilegious Congregation”, pezzi che ho gradito più di altri in un lavoro che comunque consiglio di ascoltare senza troppi pensieri.

Alla fine, Michel Jonker ha preferito riassumere la propria produzione in questi 30 minuti scarsi di death metal dal sapore antico, ha preferito un usato sicuro all’innovazione, si è accontentato di comporre e suonare una musica che tutti noi abbiamo già sentito (e apprezzato per carità).

Forse questa scarsa personalità è stato il limite degli Entrapment, band che ha prodotto parecchio nei dieci anni in cui è stata attiva, ma senza mai colpire nel segno, senza mai piazzare la zampata vincente; ed è forse questo limite che alla fine ha convinto Jonker a mollare la presa. Magari in attesa di una migliore ispirazione o nella speranza di trovare qualcuno con cui condividere un progetto anche a livello compositivo.

Per il momento, gli Entrapment passeranno alla storia dopo il già programmato ultimo show al Graveland Open Air (che si terrà a breve in Olanda); da parte mia un saluto e un grazie al vecchio Michel per l’impegno profuso a suonare death metal, la musica che, sono certo, lui stesso ama senza compromessi. 

9 . Towering – Obscuring Manifestation – Dolorem Records

I parigini Towering arrivano al loro esordio discografico allo spirare del corrente mese di maggio, regalandoci un eccellente e furioso disco di blackened death metal.

I nostri sono prodotti dalla piccola label francese Dolorem Records (più anticamente impegnata nel mailorder piuttosto che nella produzione discografica) che pesca sempre bene tra gli adepti al metallo della morte provenienti da Francia del Nord e Belgio (evidentemente chi gestisce l’etichetta ha sposato l’onorevole scelta di dedicarsi a band locali).

I Towering suonano da maestri un violentissimo death metal con ampie derive blackeggianti: come è tipico delle moderne band blackened, anche i nostri infarciscono il sound con derive nere tipicamente sparate e aggressive per poi firmare dei notevoli rallentamenti nei quali la melodia assume connotazioni più chiaramente death metal.

Il bello di dischi come questo (non mi stancherò mai di dirlo) sta nella loro anima pura e antica ben inserita nell’evoluzione odierna del genere: i nostri, infatti, ci fanno capire di saper correre veloce senza perdere la pulizia del sound e di saper amalgamare con attenzione e ottima resa la sessione ritmica e gli assoli.

La velocità furibonda della proposta coglie in pieno l’intento di far del male all’ascoltatore, ma, allo stesso tempo, riesce a rendere l’idea di malevolo tormento che la musica dei nostri vuole trasmetterci: si passa dai massacranti blast beat delle parti sparate alle ragionate e cadenzate cavalcate funebri con naturalezza e credibilità compositiva.

Tra i pezzi di mio maggior gradimento, la velocissima “The Poison Of Man”, la cattivissima “Monuments To Our End” (notevole la parte lenta sulla quale si staglia il sofferente scream blackeggiante del singer) e la conclusiva, lunghissima, “Becoming All – And Nothing”, song che combinate alle restanti (tutte eccellenti) raggiungono un totale di circa 40 minuti di furia davvero convincente.

Disco di esordio parecchio interessante da parte di una band che ha, secondo la mia opinione, tutte le possibilità di crescere ancora in composizione e rendere l’esecuzione del prodotto vicina alla perfezione date le notevoli doti dei musicisti del combo.

Album fortemente consigliato a tutti, un ottimo viatico per l’inizio della stagione estiva per tutti coloro che non intendono ammettere la vittoria (per lo meno per i prossimi tre mesi) della luce sulle tenebre.

10 . Goregang – Neon Graves – Transceding Obscurity Records

Album di debutto per questo duo di musicisti radicati in Florida ma attivi in un numero imprecisato di band sparse per il globo (tra le quali troviamo una delle tante creature di Rogga Johansson, ossia i Ribspreader: tutto si può dire dell’iperproduttivo Rogga ma non che non scelga musicisti di livello sopraffino per comporre le line up delle sue innumerevoli entità).

In effetti, i nostri ci sanno fare: suonano un bel death metal tenebroso, dal groove molto forte e tendente a sfociare in mari popolati da brutali arrangiamenti di stampo hardcore, senza dimenticare una vena scandinava che si coglie soprattutto in alcune parti tumpa tumpa lanciate su riff crudi e grattanti.

Ne esce, come detto, un eccellente prodotto nel complesso, ma che, tuttavia, non lascia il segno più di tanto: soprattutto, i nostri paiono avere qualche idea molto valida ma non sempre sembrano essere in grado di assecondarla a dovere; ci sono parti in cui l’headbanging parte furioso e il ritmo riesce a trascinare chi ascolta, ma spesso ho percepito alcuni rallentamenti di troppo in un genere che dovrebbe, secondo me, fare dell’impatto senza tanti pensieri il proprio marchio di fabbrica.

Tra le cose buone, di sicuro c’è il sound dei nostri, che sono dei deathmetaller veri nonostante la giovane età e, da bravi conoscitori del genere, tributano il giusto a chi li ha preceduti ed ispirati; altra cosa eccellente è l’artwork e l’attitudine complessiva del disco che si vanno a collocare in piena tradizione death americana anni novanta.

Un album che non sconsiglio affatto ma che ha qualcosa di imperfetto.

Credo che i ragazzi, se decideranno di coltivare il progetto Goregang, potranno, in futuro, eliminare certe imperfezioni e, soprattutto, andare a creare una linea compositiva più varia e convincente.

Per il momento vado a segnalare le song migliori di un prodotto che, in ogni caso, può tranquillamente essere proposto anche ai più esigenti senza che costoro, seppur non entusiasti, storcano il naso più di tanto: la title track per il groove davvero azzeccato, “Putrid Judgement” per la classica aggressività e “Plague Of Hammers”, pezzo crudo e diretto dal ritornello trascinante.

In conclusione, i giovanotti della Florida hanno fatto per bene il loro dovere, aggiungendo un altro capitolo alla saga (ormai parecchio lunga e complessa) del vecchio death metal: magari non uno di quei capitoli fondamentali, quelli che tutti devono leggere per capire di cosa si sta parlando, ma comunque un racconto intrigante, interessante e che, perchè no, potrebbe essere il preludio di altri, più strutturati e significativi.

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