Clutch, guida essenziale alla discografia

I Clutch sono uno dei nomi di culto della scena stoner rock internazionale, amati per il loro carattere “operaio” e concreto, per la musica ricca di groove e per la carismatica voce di Neil Fallon. La band è attiva dal 1991 ma non ha mai avuto un disco campione di incassi, nè un singolo che gli aprisse le porte delle radio. Ma con spirito di sacrificio, passione e volontà, passo dopo passo hanno conquistato un nutrito seguito di devoti fan. I loro dischi invecchiano bene, così come la loro carriera, priva di veri e propri passi falsi.

Nel 1991 il rock era notevolmente diverso rispetto ad oggi. Stava esplodendo la bomba grunge, dopo un decennio di salti e mosh il metal stava entrando nella sua prima grande crisi, il punk non era ancora entrato nei riflettori mainstream. Lo stoner non esisteva. Il 1991 fu l’anno di “Volume One” degli Sleep, “Spine Of God” dei Monster Magnet, “Forest Of Equilibrium” dei Cathedral e “Wretch” dei Kyuss, futuri classici del genere ma che furono acquistati e amati solo da un piccolissimo numero di persone.

LE ORIGINI POST-HARDCORE / ALTERNATIVE METAL

Un genere che si stava facendo largo era quello dell’alternative metal. I giovanissimi Tim Sult (chitarra), Dan Maines (basso), Jean-Paul Gaster (batteria) e Neil Fallon (voce) si formarono a Germantown, Maryland non per suonare doom (il Maryland è “famoso” per quello) ma per suonare proprio rock/metal alternativo e roccioso sulla scia di Helmet, Rollins Band, Unsane. Sembrerà strano ma potete sentirne forti i richiami nel singolo d’esordio intitolato “Pitchfork“, formato da quattro canzoni un po’ urlate e con chitarre belle spesse.

Se ne accorse la Earache, ai tempi casa di Entombed, Cathedral, Painkiller, Godflesh, Fudge Tunnel, Scorn, Pitch Shifter, Napalm Death e altri terrosti sonori. “Passive Restraints” (1992) uscì come singolo per l’etichetta di Digby Pearson e contiene tre brani. Il sound si sfilacciò pur rimanendo sempre in territori hardcore/noise/metal. Il groove però è già ben presente (forse è proprio questo che colpì Digby): si sente che sono i Clutch ma l’umore è quello di una band arrabbiata che gioca a fare l’abitante di una metropoli malsana. La lunga “High Caliber Consecrator” suona come degli Unsane che giocano a fare i Melvins. Di recente la title track è stata risuonata con il cantante dei Lamb Of God Randy Blythe. L’EP è stato ristampato nel 1997 con il nome “Impetus”.

Cappellino con visiera, capelli corti, facce sbarbate e incazzate, i Clutch nel debutto “Transnational Speedway League: Anthems, Anecdotes, and Undeniable Truths” (1993) sono più vicini ai White Zombie che ai Black Sabbath. La voce di Neil Fallon è roca e non di rado si lancia in metriche funky/rap praticamente crossover. Mentre la ritmica è quella da band “groove metal” le chitarre suonano diverse. Evitano la tamarrata, non hanno paura di osare soluzioni ardite e, soprattutto, i riff sono corposi e pienamente rock. Mentre il resto della band è assorta a rincorrere il trend dei primi anni 90, il chitarrista Tim è per conto suo. Sarà l’ancora di salvezza per distinguerli dall’imminente ondata crossover-numetal che in qualche modo influenzeranno: la band fece un tour di spalla ai Sepultura pre-Roots e sembra che i brasiliani abbiano preso in prestito qualche idea per il loro futuro trend sonoro. Tra le favorite dei fan spiccano “A Shogun Named Marcus” e “Binge And Purge”.

LA NASCITA DEL SOUND CLUTCH

Nel 1995, anno di “And The Circus Leaves Town” dei Kyuss, “Dopes To Infinity” dei Monster Magnet, “Daredevil” dei Fu Manchu, la band se ne esce con un secondo disco omonimo, sempre pubblicato dalla East West, succursale della Warner. E’ una ripartenza: il sound abbandona le derive post-hardcore/noise/groove metal e diventa definitivamente quello che abbiamo imparato ad amare ovvero un convincente mix di hard rock blues sporcato di funk/soul. “Clutch” (1995) è uno dei dischi best-seller della band pur non avendo generato singoli di successo e avendo abiurato il precedente sound. Nella tracklist svettano l’anthemica “Texan Book of the Dead” e la stoner “Spacegrass” ma in generale il disco è considerabile ottimo. Lo stile della band è ben visibile e sono incredibili i progressi rispetto all’esordio. Ed è ancora più incredibile considerare che i nostri hanno rifiutato il carrozzone metal alternative per costruirsi una propria nicchia realmente alternativa.

Registrato agli Electric Lady Studios di New York “The Elephant Riders” (1997) è il primo e unico disco pubblicato dalla Columbia. Due elementi molto importanti e ambiziosi che però non mostrano uno spostamento del baricentro verso sperimentazioni più “roots”, sebbene in due brani (“Muchas Veces” e “Crackerjack”) spunti addirittura il trombone del jazzista Delfeayo Marsalis. E’ un disco piuttosto monolitico, quanto l’elefante in copertina, fatto di riffoni hard un po’ GrandFunk e tanto hard rock americano anni 70. Gli elementi però non sono ancora completamente a fuoco e la band farà molto meglio nell’immediato futuro. Un disco fuori dal tempo, che potrebbe essere uscito nel 1977 come nel 2007.

Jam Room” (1999), autoprodotto tramite River Road Records, è il primo disco che mostra i Clutch liberi di essere loro stessi. Pensato come una jam in studio i nostri si lasciano andare in libertà a brani che hanno il sapore degli anni 70, la potenza degli anni 90 e lo stile che sviluperanno nei 2000. “Jam Room” ha il pregio di sembrare un disco dal vivo, dove la band ha sempre dato il meglio. In questo disco inizia a svettare la classe del batterista Jean-Paul Gaster vera e propria macchina del groove. Il disco è una miscellanea degli amori musicali dei Clutch: hard rock, funk, blues, soul, metal, psichedelia, rock and roll. Un album minore ma da recuperare se siete fan della band. Se invece già amate questo vi consiglio di indagare tra i dischi dei The Bakerton Group, alter ego jam-blues dei Clutch.

IL NUOVO MILLENIO E I CAPOLAVORI

Pur avendo attraversato tutti gli anni 90 la fama dei Clutch crebbe esponenzialmente solo a partire dagli anni 2000. Merito di un atteggiamento umile che non gli ha mai fatto fare scelte fuori di testa: come dei bravi artigiani hanno cesellato il loro sound passo dopo passo, senza paura di sbagliare, aggiungendo e togliendo elementi che potevano essere utili alla causa. Nel decennio delle one-hit wonder, Neil Fallon e soci non hanno quasi mai pubblicato videoclip, nè singoli, limitando i passaggi radio e televisivi. Forse non si sentivano pronti, forse non sentivano troppo interesse intorno a loro pur avendo avuto contratti importanti (Earache, Warner e Columbia). In ogni caso questo atteggiamento è servito per affrontare al meglio il nuovo millenio. Nuovo contratto (Atlantic) ed ennesima rinascita. “Pure Rock Fury” (2001) è esattamente quello che il titolo promette: una mazzata di hard rock senza sosta. Nell’anno del nu-metal, dei super gruppi di plastica, dei riff “groove” i Clutch si presentano duri e puri. E persino più maturi come testimonia l’ironica rap/metal “Careful With That Mic”. Neil Fallon sebbene ancora piuttosto urlatore ha trovato il suo timbro particolare da predicatore, mentre la band sciorina riff su riff senza sosta. E’ il primo disco prodotto da Machine e vede ospite il leggendario Wino (The Obsessed, Saint Vitus) e un paio di membri dei sottovalutati Sixty Watt Shaman. “Smoke Bunshee”, “Immortal” e la title track sono i brani da non perdere. Il millennio non poteva iniziare in modo migliore.

Prima di dare seguito a “Pure Rock Fury” i Clutch mettono ordine nella loro discografia con “Slow Hole To China: Rare And Unreleased” (2003), raccolta di brani rari, inediti e b-side e pubblicando il “Live At The Googolplex” (2003) antologia dal vivo con registrazioni provenienti da varie fonti. Altro disco altro cambio di etichetta: questa volta tornano indipendenti e pubblicano tramite la newyorkese DRT.

“Blast Tyrant” è il primo vero e proprio capolavoro dei Clutch: tutto è perfetto. Le canzoni, i riff, la produzione: non c’è un calo di tensione. “Mercury”, “Profits Of Doom”, “The Mob Goes Wild”, “Promoter”, “The Regulator”… la scaletta è prodigiosa, la band in forma come non è mai stata. Non un passo falso, non una nota stonata. Se pensate che possa bastarvi un loro disco procuratevi questo: il loro boogie-rock-stoner è qui all’apice della forma.

Con l’inserimento del tastierista Mick Schauer i Clutch pubblicano il settimo disco “Robot Hive / Exodus” (2005), prodotto da J Robbins e mixato da John Agnello. Altro capolavoro: “The Incomparable Mr Flannery”, “Burning Beard”, “10001110101” sono qui dentro, ma il resto della scaletta non è da meno. Se siete uomini è impossibile non uscire dall’ascolto di questo disco senza una gigantesca barba. Se siete donne ditemi voi che cosa vi genera. Con Robot Hive viene inaugurato ufficialmente un nuovo modo di suonare “stoner” dopo la scorpacciata di cloni Kyuss/FuManchu dei primi 2000. Pochi però sapranno avvicinarsi a tanta maestria, persino loro stessi.

Pitchfork & Lost Needles” (2005) mette in ordine nella primissima fase della band (quella post-hardcore) mentre “From Beale Street To Oblivion” (2007) è il terzo centro di fila. Prodotto da Joe Barresi (Tool, Melvins, Queens Of The Stone Age) e licenziato da DRT è l’ultimo disco con il tastierista Mick Schauer. La nuova produzione sposta il sound verso un approccio più oscuro e sabbathiano, e quindi stoner. Questo è il disco per fan di Soundgarden, Black Sabbath, Kyuss, Melvins: roccioso, heavy e senza tanti fronzoli. Di contro paga lo scotto di avere meno brani “iconici” ma a vincere è l’ascolto di insieme. “From Beale Street To Oblivion” vince sulla lunga distanza: non stanca mai.

Nel 2008 pubblicarono un live intitolato “Full Fathom Five: Audio Field Recordings” e relativo DVD (ma che contiene registrazioni diverse), mentre l’anno dopo diedero alle stampe, autoprodotto tramite Weathermaker Music, l’album “Strange Cousins from the West“. Con l’abbandono del tastierista l’album segna un nuovo ciclo, un po’ meno ispirato musicalmente ma sempre piuttosto interessante. Dopo quasi 20 anni di carriera i Clutch conoscono i loro limiti e il loro pubblico: hanno quasi la consapevolezza che più di tanto certi risultati non possano ottenere.

“Strange Cousins From The West” (2009) è un disco meno carico dei precedenti ma che mette in luce una maggiore cura nel songwriting e nelle liriche. “50,000 Unstoppable Watts”, “Motherless Child” sono brani che conquistano fin dai primi ascolti, sebbene ad ascoltarli siano sempre i soliti. Troppo brutti? Troppo poco carismatici? Troppo comuni? Misteri dello showbusiness. Un certezza c’è: “Abraham Lincoln” manda a casa tutte le ballad post-grunge che ci siamo sorbiti nel decennio.

GLI ANNI 10

Ringalluzziti da lunghi tour, sia da headliner che in apertura di importanti act, i Clutch tornarono in studio per preparare un disco ispirato alle piacevoli ed energiche esperienze sui palchi. Richiamano Machine alla produzione e registrano “Earth Rocker” (2013) un ritorno al sound roccioso di 10 anni prima. La band si diverte e si sente: la title track è irresistibile, “D.C. Sound Attack!” è una chiamata alle armi. Il resto il sempre ottimo hardrock-boogie con piedi ben saldi negli anni 70.

Psychic Warfare” (2015) è praticamente il seguito di “Earth Rocker”: hard rock sparato, bei riff, bei ritornelli e tanta energia. “X-Ray Visions” e “A Quick Death In Texas” sono i pezzi forti. Gli altri sono nell’ormai classico stile della band: prendere o lasciare.

Terzo disco e ultimo del decennio è “Book of Bad Decisions” (2018), sempre pubblicato per la propria Weathermaker Music. Ricco di fiati (sassofono, tromba, trombone) e tastiere ha qualche spunto un po’ più soul-rock ma la maggior parte del menu è sempre nel consueto marchio di fabbrica della band. Non un brutto disco ma “only for fans”.


I Clutch, sempre molto attivi in ristampe e recuperi, hanno iniziato ad aprire il forziere delle loro canzoni, pubblicando ogni tanto reinterpretazioni, cover e nuovi brani per il cosidetto The Weathermaker Vault Series, che per ora comprende una decina di singoli pubblicati digitalmente.

Con la recente pandemia di Covid-19 hanno anche aumentato la loro presenza sul web con l’uso di dirette in studio e concerti per i fan. Senza dubbio una band di infaticabili lavoratori e ottimi musicisti da supportare senza riserve.

CONCLUSIONI:

Mai un disco brutto, mai un disco ruffiano: questo basterebbe per guidarvi nella scelta agli acquisti. I primi cinque in lista sono consigliati ad occhi chiusi, gli altri con riserva (ma sono comunque ottimi), quello che manca può essere considerato per completisti. Completisti che però dovranno anche cercare le raccolte di inediti e live, sempre di alto livello.

1 – Blast Tyrant
2 – Robot Hive / Exodus
3 – From Beale Street To Oblivion
4 – Pure Rock Fury
5 – Clutch
6 – The Elephant Riders
7 – Earth Rocker
8 – Jam Room
9 – Transnational Speedway League
10 – Strange Cousins From The West

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