Pearl Jam, guida essenziale alla discografia

L’esordio dei Pearl Jam ha compiuto trent’anni da poco tempo ed è tuttora il best seller della band. Le canzoni più ascoltate su Spotify sono “Alive”, “Even Flow”, “Black” e “Jeremy”. I dischi successivi sono decisamente meno consumati dal grande pubblico, sebbene siano stati sviscerati in ogni modo dai fan. Questo articolo si rivolge al pubblico generalista, quello che li conosce di nome e che al di là delle canzoni ascoltate in radio (non molte e non le migliori), non sa come orientarsi nella loro discografia. Una discografia non vastissima e non sempre imperdibile, soprattutto negli ultimi anni.

Il fan più equilibrato consiglierà tutti i dischi da Ten a Yield. Quello più generoso arriva fino a Riot Act. Quello più critico si ferma a Ten e al massimo arriva a Vitalogy. In questo articolo cercherò di spiegarvi perchè, e vedere se ci si può spingere oltre. Alla fine della lettura, quando andrete in un negozio di dischi, saprete cosa cercare e cosa lasciare lì.

Ten (1991)


La nascita di questo disco è abbastanza leggendaria e vale la pena spenderci due parole di più. Negli anni 80 c’era una band chiamata Green River che, di fatto, inventò il sound grunge (un mix fra punk rallentato e hard rock, esistono tante scuole di pensiero su cosa sia il genere ma questa è la definizione che riassume tutti i dischi del genere fino al 1991). Tra le loro fila c’erano Mark Arm e Steve Turner, Stone Gossard e Jeff Ament. I primi due se ne andarono scazzati dalla piega hard rock che stava prendendo la band e fondarono i Mudhoney (leggi qui), i secondi formarono i Mother Love Bone con Andy Wood dei Malfunkshun. Ne venne fuori una stravagante band glam hard rock, una sorta di Guns N’Roses di provincia. Andy aveva il vizietto dell’eroina e ci lasciò le penne. Il disco postumo (Apple) è, al di là del genere, un disco stupendo; il perfetto ponte fra l’hair metal del periodo e il futuro alternative rock con massicce dosi di Queen ed Elton John. Sulla carta una schifezza, in realtà una gemma. Sciolti i MLB Jeff e Stone andarono in depressione e iniziarono a scrivere canzoni su canzoni. Alcune le ascoltò Chris Cornell dei Soundgarden e insieme diedero vita ai Temple Of The Dog, progetto nato per tributare lo scomparso amico. Serve che dica che è uno dei dischi più belli della storia del rock? Compratelo a scatola chiusa. E se ce l’avete già regalatelo ad un amico: ne ha bisogno.


Stone e Jeff, aiutati da Matt Cameron (batterista dei Soundgarden) e Mike McCready (chitarrista in alcune band hard rock locali), si misero a lavorare ad un demo per cercare un nuovo cantante. Non solo perchè i nostri adoravano suonare ma anche perchè le major erano pronti ad accoglierli senza problemi avendo loro dimostrato essere degli ottimi songwriters. Il demo girò per gli Stati Uniti finchè non arrivò ad un benzinaio di San Diego tramite Jack Irons, batterista dei Red Hot Chili Peppers. Il benzinaio era un timido ragazzo piuttosto tormentato ma soprattutto un grande cantante ancora senza una band (i Bad Radio non li contiamo, non avendo neanche fama locale). Ricevuto il demo lo ascoltò e registrò immediatamente la traccia vocale nelle tre canzoni. Assemblò il tutto, lo intitolò Mamason e lo spedì a Seattle. Ricevuta la cassetta Jeff non potè credere alle sue orecchie. Le canzoni erano “Alive”, “Once” e “Footsteps” ed insieme formarono un piccolo concept album su un ragazzo con una famiglia disastrata che diventa un serial killer e per colpa delle sue azioni finisce sulla sedia elettrica. Il modo di cantare del benzinaio di San Diego era diverso rispetto ai canoni del periodo: la voce molto cupa, enfatica e bassa era diametralmente opposta a quella solare e giocherellona di Andy Wood. Scegliere Eddie Vedder come cantante contribuì a distruggere il tipico cantato “hard rock” del periodo, quello sullo stile Axl Rose per capirci. Trasferitosi a Seattle Vedder contribuì al disco Temple Of The Dog mentre “Ten” prendeva vita. La band si nominò Mookie Blaylock dal nome di un cestista, passione comune dei ragazzi. Ma il nome ebbe vita breve e si ribattezzarono Pearl Jam, da una fantomatica ricetta di allucinogeni di nonna “Pearl”.

Fine dell’introduzione “leggendaria”. Di cose da dire ce ne sarebbero ancora molte ma lo spazio è tiranno.

Ten fu realizzato molto velocemente, prodotto in maniera piuttosto scadente e assemblato alla bene e meglio. L’obiettivo era che vendesse 50 mila copie. Ne vendette 10 milioni. “Ten” era il numero di Mookie Blaylock, non il numero di canzoni e neanche l’obiettivo milionario. Alla batteria troviamo Dave Krusen che lasciò la band subito dopo le registrazioni. La musica è principalmente di Gossard e Ament, a parte “Porch” firmata da Eddie Vedder, effettivamente la canzone più rockettara del lotto. L’architettura sonora generata dal duo era figlia dell’hard rock alternativo che stava nascendo in quegli anni, King’s X su tutti. Ma la ciliegina sulla torta era la voce di Vedder: anthemica, grintosa ed enfatica. I ritornelli di Alive, Even Flow, Jeremy (i primi tre singoli), Once; le ballate dolenti ormai leggendarie come Black, Oceans, Release. E non scordiamo i brani “secondari” ma di altissimo livello come Deep, Garden, Why Go e Once. Insomma un capolavoro da 10 e lode. Dopo questo disco si scatenò la Pearl Jam-mania che andò ad affiancarsi alla Nirvana-mania e che insieme generò una grunge-mania. E il mondo musicale non fu più lo stesso.

VS (1993)


Dopo l’uscita di Ten, i Pearl Jam si imbarcarono in una serie infinita di date, interviste e ospitate. Tutto ciò generò parecchia tensione che portò ad una drammatica chiusura contro il resto del mondo. Basta videoclip, basta interviste, basta ospitate. E’ vero che la band voleva il successo ma non questo tipo di successo. Voleva poter dire di no, fare delle scelte artistiche, fare una vita normale. VS nacque come risposta, era un grosso NO a tutti. Il disco si doveva intitolare “Five Against One” (ovvero i cinque membri della band contro il mondo discografico e a gioco di parole della masturbazione maschile), poi Pearl Jam. Infine vinse VS (ma dopo che il vinile andò in stampa, infatti nella costina non troverete nessun riferimento a Versus). Se i ragazzi hanno fatto un disco “grunge”, inteso come “sporco”, “arrabbiato”, “depressivo”, “distorto” (ovvero come veniva inteso nel post 1991) è questo. “Go” e “Animal”, messe in apertura sono uno schiaffo all’ascoltatore e non sono tanto lontane dal post-hardcore noise dell’epoca (Helmet?). La batteria funky di Dave Abruzzese dona un tiro inedito alla band che in qualche modo si avvicina anche alle formazioni hard-funk del periodo (Rats, W.M.A.). “VS” è un riassunto di quello che era la musica all’inizio degli anni 90 ma anche un discreto saccheggio a “Green” dei R.E.M., soprattutto nelle parti più morbide. Eddie Vedder prende Michael Stipe come ispirazione per testi criptici e modo di cantare, ma anche per le tematiche (vedi “Daughter”, ispirata da “The Wrong Child”). Testi che prima di entrare in studio furono rubati durante un concerto da un fan in cerca di souvenir. E’ un disco politico che prende posizioni piuttosto nette (Glorified G è contro le armi e contro il carattere macho, nacque come sfottò al batterista di origine texane che si vantava di aver comprato non uno ma due fucili, oppure W.M.A. contro la polizia). Fra tutte le canzoni svetta Rearviewmirror, rockettone in crescendo che diventerà fra le preferite dei fan. In chiusura la crepuscolare Indifference, che segue la grintosissima Leash. Versus è un disco ricco di rabbia e irruenza giovanile, è un disco rappresentativo di un’ epoca che non tornerà. Un disco diverso da Ten che in confronto, a livello di idee e di suono, sembra uscito 10 anni prima. Le canzoni però, nella loro maggiore semplicità, sono leggermente meno iconiche.

Vitalogy (1994)


Vs e Vitalogy vendettero piuttosto bene sull’onda lunga di Ten e del grunge sebbene la band avesse interrotto ogni mossa promozionale. Addirittura Vitalogy detenne per molti anni il record di vinile più venduto nell’arco di una settimana. La band, in tempi non sospetti, decise di far anticipare l’uscita del vinile rispetto al più popolare CD. Ai tempi, l’unico modo per ascoltare in “anteprima” il disco.
La band non solo non dava gioie all’etichetta ma neanche ai fan: Vitalogy fu il primo grosso tentativo di smarcarsi dal pubblico di massa con un disco ostico e pretenzioso, con un sound grezzo e con canzoni eccezionali ma con degli abissi dentro non affrontabili dal comune ascoltatore radio-friendly. Pearl Jam inseriscono suoni alieni, rumori, nastri in loop, code strumentali e follie varie. “Not For You” era la canzone contro chi stava ascoltando la band solo per l’hype: “where did they come from? Stormed my room “, da dove è arrivata sta gente? “Vitalogy” è il disco del post-Cobain, uscito quando tutti pensavano che il prossimo a lasciarci sarebbe stato Vedder. Vedder compreso. “Vitalogy” in realtà funzionò da catarsi, nella sua incredibile tristezza (“Immortality” è un buco da cui è difficile riemergere) ti ci fa uscire, un po’ come “Berlin” di Lou Reed. La qualità delle canzoni non è accolta da tutti allo stesso modo e, ancora oggi, vengono ricordate Corduroy (che cita la stoffa della giacca di Vedder), Nothingman, Better Man (la prima canzone scritta dal frontman ai tempi dei Bad Radio) e, appunto, Immortality. Le altre sono canzoni sporche, quasi punk (la lode al vinile “Spin The Black Circle” è un plagio di “Beyond The Treeshold” degli Husker Du) e decisamente sbilenche. Ma Last Exit, Tremor Christ, Whipping, Satan’s Bed sperimentano in modo originale nella forma canzone “grunge”. E sono dei classici minori ma pur sempre dei classici. Difficile trovare un disco più sincero e a vene aperte di questo. Per il sottoscritto è il migliore della discografia e tra i miei tre dischi preferiti in assoluto.

No Code (1996)


Il quarto album è il disco che dimostra che i Pearl Jam non sono un fuoco di paglia ma una band degna di entrare nelle enciclopedie del rock. Nato in un modo disastroso (vi rimando all’articolo che ho scritto) e concluso in modo magistrale No Code è il disco di cui tutti vorrebbero un seguito, soprattutto alla luce della svolta sonora degli ultimi anni. No Code mostra una band che gioca sullo stesso piano di Neil Young, con cui non a caso fecero un eccezionale disco l’anno prima intitolato Mirrorball. E’ un album che mette a fuoco le influenze folk con cui Vedder flirterà sempre più spesso in futuro, ma mescolate con musica etnica (In My Tree) e post rock (Present Tense). C’è tanta poesia, ma anche divertimento e rabbia. E’ un disco prodotto in modo classico, suonato in modo classico ma allo stesso tempo contemporaneo. No Code uccide il grunge nel modo migliore possibile. Disco irrinunciabile per chiunque. Alla batteria c’è Jack Irons, ovvero colui che fece da ponte tra Seattle e San Diego e vera macchina da guerra. Come picchia sul rullante !

Yield (1998)


Quinto disco e quinto centro. Con Yield la band ricomincia a fare promozione, d’altra parte No Code vendette pochissimo ed era giusto correre ai ripari. Ripartono con le interviste e, addirittura viene girato un video promozionale per “Do The Evolution”. Il mondo intorno è cambiato e il grunge non è più la musica dei giovani, quindi non ha senso tenere il muso. In Yield troviamo una band più rilassata ma non meno ispirata, anzi. 13 canzoni e praticamente tutti centri, con menzione d’onore per le meravigliose “Given To Fly” e “In Hiding”. Jack Irons è il valore aggiunto di un disco che è un perfetto capolavoro rock, senza cali di tensione, piacevole da ascoltare e godurioso da cantare e suonare. Fino a Yield la band non si è mai ripetuta e ha sempre proposto musica di qualità, facendo scelte coraggiose ma sempre ponderate. Con Yield si conclude il periodo d’oro dal punto di vista discografico.

Binaural (2000)


Binaural segna l’inizio del nuovo millennio e una nuova fase musicale molto più “rock oriented”. Binaural è un disco strano che personalmente adoro ma che segna il primo calo qualitativo, sebbene non marcatissimo. Alla batteria troviamo Matt Cameron e, fondamentalmente, i fan di vecchia data sono d’accordo che da quando c’è lui i i lavori della band sono decisamente meno interessanti. Krusen, Abbruzzese e Irons diedero un carattere molto forte ai dischi in cui suonarono, Matt, invece, preferisce un approccio più defilato, quasi da session man. In Binaural si distinguono la apocalittica “Parting Ways”, la struggente “Light Years”, le rockettare “Insignificance” e “Grievance”. Il resto del menu però è di buona qualità, sebbene la registrazione “sperimentale” non aiuti. Dal tour di Binaural iniziò la splendida pratica di pubblicare gli official bootleg di ogni data, consuetudine che renderà i Pearl Jam come una band più da live che da disco.

Riot Act (2002)


Il settimo disco vede l’ingresso di Boom Gaspar alle tastiere, un simpatico hawaiano conosciuto da Vedder attraverso C.J.Ramone. Il disco è il più dichiaratamente politico ed è palesemente critico nei confronti dell’amministrazione Bush. E’ l’ultimo consigliabile abbastanza a scatola chiusa, magari non come prima scelta, ed è il naturale compendio al sound sviluppato in Binaural, sebbene senza raggiungerne le vette compositive. Mediamente il fan di vecchia data non supera questo scoglio.

Pearl Jam (2006)


Lo scoglio è in realtà un avocado, messo in copertina in un disco omonimo (e piuttosto anonimo). E’ un nuovo inizio e praticamente una nuova band, sebbene i membri siano ancora tutti al loro posto. Da questo album in poi il menu proposto dalla band sarà un rock piuttosto semplice, influenzato dal punk e dall’hard rock classico. Sex Pistols, Buzzcocks, X, Dead Kennedys, The Who, Rolling Stones, Bruce Springsteen sono gran belle influenze ma possono essere un’arma a doppio taglio se non ben dosate. E, purtroppo, il dosaggio è piuttosto a caso. E Vedder inizia a non essere più a suo agio con i brani più tirati.

Backspacer (2009)


Rock e ballad, ma per fortuna la band azzecca qualche canzone in più rispetto al precedente. “Got Some”, “Just Breathe”, “Amongst The Waves” e “Untough Known” valgono il prezzo del biglietto. Il resto un po’ meno.

Lightning Bolt (2013)


La band continua il suo diluvio di pubblicazioni live e celebrazioni del proprio passato mantenendo vivo l’interesse dei vecchi fan annoiati dai dischi. Purtroppo Lightning Bolt è più che un passo falso e ormai c’è una netta divisione fra le canzoni rock portate dal gruppo e i brani pop-folk alla “Into The Wild” di Eddie Vedder.

Gigaton (2020)


Ci sono voluti 7 anni di silenzio per fare un disco che è uscito in sordina a causa della pandemia. Ma, incredibilmente, è un bel lavoro, diciamo poco sotto al livello di Riot Act. Le canzoni non sono banali e c’è qualche bell’esperimento riuscito. Non è la luce fuori dal tunnel ma una speranza che la band possa in qualche modo riprendersi. Fra gli ultimi quattro lavori è senz’altro il più bello.

Nella discografia dei Pearl Jam va necessariamente inserito “Lost Dogs” doppio CD che contiene tutte le b-side e parecchi inediti della prima parte di carriera. Ci sono chicche incredibili e canzoni che solo una band in stato di grazia poteva lasciare fuori dai propri dischi. Se lo trovate compratelo senza esitazioni: vi innamorerete di Sad, Fatal, Hard To Imagine, Footsteps, Yellow Ledbetter e tante altre. E anche le canzoni più semplici sono straordinarie.
Anche i side projects e i dischi solista dei vari membri offrono ulteriore ottima musica: cito i principali Temple Of The Dog, Brad, Mad Season, Three Fish, Rockfords. Esistono inoltre decine di splendide collaborazioni. Insomma l’universo Pearl Jam non è solo “Alive” e “Jeremy”.

Infine ci vorrebbe un articolo a parte per i dischi live: l’abbiamo fatto e lo trovate qui.

Conclusione: fino a Lost Dogs sono da avere tutti, preferibilmente in ordine di uscita. Dopo ci vuole un po’ di pazienza e tanto amore.
1 – Vitalogy / Ten
2 – Vs / No Code / Yield
3 – Binaural
4 – Riot Act
5 – Lost Dogs
6 – Gigaton
7 – Backspacer
8 – Pearl Jam
9 – Lightning Bolt

Un pensiero su “Pearl Jam, guida essenziale alla discografia

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