Saint Vitus, guida alla discografia dei maestri del Doom

Sembra facile destreggiarsi nella discografia dei Saint Vitus: d’altra parte il doom non è tutto uguale? Invece quando capita di dover consigliare un disco rispetto ad un altro iniziano a prendere corpo dubbi e inevitabilmente si nomina il sempreverde “Born Too Late”. In realtà, come vedremo, ogni disco ha un’anima propria, una caratteristica che lo rende unico e a suo modo imperdibile. In quarant’anni di attività i loro dischi sono relativamente pochi: nove. Andiamo ad analizzarli.

LE ORIGINI:

Dave Chandler (chitarra, voce), Mark Adams (basso) e Armando Acosta (batterista) formano nel 1978 i Tyrant, con sede a Los Angeles. La città di X, Screamers, Germs e di tutto quel punk che fu seminale per lo sviluppo dell’hardcore. Circle Jerks, Black Flag, Adolescents, Social Distortion, T.S.O.L.
I tre però erano letteralmente agli antipodi di questa scena: il nome Tyrant era ispirato al brano omonimo dei Judas Priest contenuto nell’album “Sad Wings Of Destiny” di cui la band era grande fan. Dopo aver provato una manciata di cantanti trovarono intesa con Scott Reagers e dopo poco tempo cambiarono nome in Saint Vitus, ispirati dal brano dei Black Sabbath “St.Vitus’s Dance” contenuto nell’album “Volume 4” del 1972. Il nome Tyrant era infatti utilizzato da un’altra band di Los Angeles e per evitare problemi e confusione cambiarono ragione sociale. Nella loro breve vita i Tyrant registrarono una demo.

I Black Sabbath, ai tempi orfani di Ozzy, avevano abbracciato sonorità più heavy e lo scopo dei Saint Vitus fu proprio recuperare lo spirito dei primi quattro album, quelli più malvagi, sepolcrali e oscuri.

Tra la fine dei 70 e l’inizio degli 80 in Inghilterra si stava sviluppando la NWOBHM con Judas Priest, Saxon, Samson, Iron Maiden, i Motorhead mescolavano il punk con l’hardrock e i Venom stavano riportando la malvagità satanica nei solchi dei vinili con un sound che avrebbe influenzato la musica estrema del futuro.
I Saint Vitus furono i primi, per un certo periodo gli unici, a suonare lenti in una controtendenza apparentemente suicida che avrebbe sbarrato loro per anni le porte dei circuiti ufficiali.

LA FASE SCOTT REAGERS e LA SST

Il primo album omonimo uscì nel 1984 per la SST dei Black Flag. La band ebbe il contatto tramite gli Overkill (non quegli Overkill) con cui condivisero alcune date. Gli Overkill avevano appena pubblicato un disco per la label di Ginn così Chandler chiese se poteva metterlo in contatto dato che era grande fan dei Black Flag. L’incontro fra i metallari psichedelici Saint Vitus con i re dell’hardcore cambierà le sorti della musica heavy. Ispirati dalle sonorità lente ed heavy, Greg Ginn, Henry Rollins e soci inizieranno a farsi crescere i capelli e a rallentare la loro velocità generando quel mostro a due teste chiamato “My War”.

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L’esordio dei Saint Vitus (1984, SST) suona ancora oggi potente e oscuro. I primi due brani (“Saint Vitus” e “White Magic/Black Magic”) riassumono al meglio il concetto di heavy metal mescolato a punk e psichedelia. La voce enfatica di Scott mantiene la band su terreni hard ma la produzione grezza, i riff minimali, la ritmica sconquassante ma semplice è tutta farina del sacco “hardcore”. “Zombie Hunger” chiude il primo lato con un proto-doom decisamente evocativo. Nel secondo lato troviamo due chicche: la lunghissima “The Psychopath” (quasi 10 minuti), praticamente un film horror in musica con un epicissimo e frastornate assolo a metà canzone, e “Burial At Sea” che inizia come i Black Sabbath e poi svalvola in un proto-blackmetal psichedelico furioso e frastornante. La registrazione è a cura del fedele fonico della SST: Spot, in collaborazione con Dez Cadena, garanzia di suoni grezzi e “live”. Dopo aver ascoltato questo disco non mi stupisce che alcune menti malate abbiano deciso di abbandonare il punk per suonare materiale di questo tipo.

Dopo tour in giro per Stati Uniti in Canada con i Black Flag i Saint Vitus si presero parecchi sputi e insulti, diventando ancora più amati da coloro che già li apprezzavano. L’hardcore li odiava ma la scena anti-hardcore (leggi approfondimento) li avrebbe presi come riferimento assoluto di coraggio e intraprendenza. Chi andava ad un concerto per sentire i Black Flag poteva rimanere schifato come estasiato da tanta potenza espressa da questi quattro capelloni fuori tempo massimo. Soundgarden e Melvins li presero come esempio per plasmare il proprio sound e pian pianino sarebbero emerse band “doom” in ogni parte del mondo. “Hallow’s Victim” (1985, SST) suona diverso dal predecessore, sebbene gli ingredienti siano gli stessi. Il suono è meno chiuso, la voce è decisamente più epica e convinta, le parti psichedeliche più rintronanti, i riff più elaborati. Anche il menu è più vario: tra mid-tempos e classici doomoni spuntano anche brani più veloci per la gioia dei kids più casinisti. “Hallow’s Victim” è amato da una piccola nicchia di fan, forse perchè più “epico” rispetto al predecessore ma ha parecchie frecce al proprio arco.

“The Walking Dead” (1985, SST) è l’EP con cui si congedarono da Scott Reagers. Due brani di heavy-metal psichedelico (“Darkness” e “White Stallions”) e un lungo mantra-doom (la title track di circa 11 minuti) che con i suoi assoli allucinanti segna la strada per i deliri fusion di Greg Ginn.

LA FASE WINO

Stremato e sfiduciato dalla vita on the road, Scott Reagers lasciò il gruppo ma non prima di aver trovato il sostituto: Scott Weinrich, dal Maryland ma gravitante nell’area di Washington DC. La sua band The Obsessed, fondata nel 1978 e anche loro “Sabbath-oriented”, condivideva il destino dei Saint Vitus: troppo strana per entrare nel circuito metal era stata adottata dalla comunità hardcore. La loro discografia era piuttosto povera: un singolo e alcune partecipazioni a compilation. Scott, detto Wino, decise di accettare l’invito e divenne il nuovo cantante dei Saint Vitus. Wino è un cantante più grezzo, meno epico, più sanguigno, più spirituale, più “vero” e perfetto per iniziare una “fase 2” del progetto.

“Born Too Late” (1986, SST) è IL capolavoro della band. Il disco da avere per amarli e per approcciarvi al DOOM (se ascoltate il genere e non lo conoscete vergognatevi e rimediate). Wino si inserisce perfettamente nel sound dei Saint Vitus senza emulare Reagers nè Ozzy, ma trovando una terza via vincente. “Born Too Late”, “Clear Windowpane”, “Dying Inside”, “H.A.A.G.”, “The Lost Feeling”, “The War Starter” sono brani che appartengono alla storia del rock.
Certo, non aspettatevi tecnicismi, precisione, arrangiamenti articolati: gli assoli sono a caso, il songwriting è al minimo, le dinamiche assenti, la registrazione scarsissima. C’è la passione, l’anima, la volontà di raccontare il proprio vissuto e un modo totalmente personale di suonare. I Saint Vitus sono e saranno sempre dei musicisti riconoscibili tra un milione.

La ristampa in CD di “Born Too Late” contiene anche l’EP “Thirsty And Miserable” (1987, SST), la cui title track è in origine contenuta nell’album “Damaged” dei Black Flag. Se il suono di “My War” è palesemente preso dalle idee dei primi Saint Vitus qui Chandler & co spiegano al pubblico che i Black Flag erano già nelle loro corde fin dal principio. Uno splendido scambio di apprezzamenti e un crossover metal/hardcore realmente concreto. E poi quelle magliette di Germs e Alice Cooper in copertina! Nel resto dell’EP troviamo la pseudo-ballad dark “The End Of The End” e la heavy “Look Behind You”.

Nel 1988 è già il turno di un nuovo disco: “Mournful Cries”, che fin dalla copertina tradisce chiare influenze settantiane. Dopo la veloce “The Creeps” ci si butta in riff paludosi, ripetitivi e pesanti, monolitici e disturbanti nel loro grezzume. Wino interpreta la figura dello sciamano, mentre la sezione ritmica non si stanca mai di tenere tempi narcolettici. Non c’è un raggio di sole, non c’è una concessione all’orecchiabilità. Gli assoli suonano come dei lampi impazziti che colpiscono a caso. Per il suo carattere monolitico “Mournful Cries” è adatto ad orecchie allenate e già consumate dal doom.

Al quinto disco la band inizia ad avere un minimo di attenzione anche da parte del pubblico metal (anche perchè le stranezze “punk” sono ormai archiviate da tempo) e finalmente approda per una label di genere. Hellhound Records, qui poco più che esordiente (il numero di catalogo è il 3), pubblica nel 1989 “V”, uno dei dischi più celebrati dai fan. Il genere iniziava ad essere ricco di nomi: Candlemass, Trouble, Revelation, Death Mask, Asylum sono alcuni dei nomi che stavano facendo proseliti in ogni parte del mondo.
Il sound della band è finalmente più intellegibile e la band sembra porsi in modo più professionale. E’ il canto del cigno della fase “Wino” che dopo questo disco abbandonerà la nave per tornare negli Obsessed, la sua vera creatura dove può sbizzarirsi a suonare e a scrivere musica (nei Saint Vitus praticamente esclusiva di Dave Chandler). Il doom di “V” è portato all’esasperazione influenzando il drone-metal e lo sludge più opprimente piuttosto che i nomi che si faranno largo negli anni 90 come Type O Negative, Anathema, Paradise Lost, Cathedral. Electric Wizard, Burning Witch, Sunn O))) risuonano nelle pieghe di un brano asfissiante e mefistofelico come Patra (Petra). Non a caso nel 2004 verrà ristampato da Southern Lord.

IL POST WINO

Rimasti nuovamente senza cantante anche questa volta pescarono tra i nomi del non ancora affollatissimo underground “doom” : il prescelto fu Christian “Chritus” Linderson dei Count Raven, band svedese che ai tempi aveva pubblicato “Storm Warning” (1990) per Hellhound Records. “C.O.D.”, ovvero “Children Of Doom”, uscì per Hellhound in Europa e Nuclear Blast negli Stati Uniti nel 1992. “C.O.D.” è un album considerato minore nella carriera della band che si divide fra i fan di Wino e quelli di Reagers. I fan di Linderson sono veramente pochi. Ed è un male perchè ascoltato dopo anni dalla sua uscita “C.O.D.” è un disco più che dignitoso, seppur senza farci gridare al miracolo. Ovviamente lontanissimo dal punk e lontano dai plumbeo rifferama oscuro del periodo Wino. La produzione di Don Dokken (si proprio il cantante dei Dokken) normalizza il sound cercando di aggiornarlo al presente, sebbene anche lui in ritardo di qualche anno.

Le discretamente folli scelte effettuate per C.O.D. faranno tornare nei ranghi Scott Reagers per un ultimo disco: “Die Healing”, pubblicato nel 1995 da Hellhound Records. Sebbene fuori tempo massimo (ma è un problema della band fin dagli esordi) “Die Healing” è un ottimo lascito. I chitarroni tornano a ruggire e la voce di Reagers è teatrale come non mai, anticipando per certi versi alcune intuizioni dei Goatsnake e certo doom-metal che ascolteremo dal 2000 in poi. Si può dire che il continuo turnover di cantanti abbia salvato la carriera della band? Certo. D’altra parte la stessa cosa è successa anche ai maestri Black Sabbath!!
Se non amate i suoni troppo sporchi e minimali vi conviene iniziare l’esplorazione della band da questo disco e solo successivamente buttarvi negli anni 80.

REUNION

Nei primi anni del 2000 Dave Chandler suonava con Ron Holzner (Trouble) e Jimmy Bower (Eyehategod) nei Debris Inc. Durante l’esibizione al festival Wacken del 2002 suonò due brani dei Saint Vitus (“Dying Inside” e “Born Too Late”) e il pubblico impazzì letteralmente. Era la prima volta che Dave vedeva quanto lontane erano andate le sue canzoni tanto da entusiasmare le nuove generazioni. Ecco perchè richiamò Armando e Mark e decise di rimettere in piedi i Saint Vitus. Della partita fu anche Wino, sebbene ai tempi era impegnatissimo in mille progetti. Grazie alle ristampe di “Live” e “V” da parte di Southern Lord si riaccese interesse tra i giovani e nel 2009 suonarono al Roadburn Festival. Armando purtroppo abbandonò poco dopo per gravi problemi di salute e morì nel 2010 a soli 58 anni. Nel 2012 venne pubblicato “Lillie: F-65”, primo album di inediti dopo 17 anni e il primo con Wino dopo 22. Onestamente un disco senza infamia e senza lode: ben suonato, ben registrato ma un po’ buttato lì. Più adatto a riportare il nome sui palchi e a far comprare i dischi storici che a far gridare al miracolo. Certo, ascoltare Wino di nuovo con il chitarrone marcio di Dave Chandler è sempre un piacere ma le idee sono poche e il godimento pure: album decisamente troppo, troppo, breve.

Ad oggi è Wino il personaggio instabile del gruppo: fra arresti per possesso di droga e infiniti progetti musicali, i rivitalizzati Saint Vitus non possono contare su di lui come un tempo. Ed allora perchè non continuare la staffetta reinserendo il mitico Reagers? Tanto ormai i tour non sono più faticosi come un tempo, la band è amata ovunque e i fan di Reagers sono forse più devoti di quelli di Wino. Il secondo album omonimo esce nel 2019 ed è una piccola sorpresa, non solo per la presenza di Reagers. La qualità è vicina a quella di “Mournful Cries”, con l’aggiunta di qualche chicca come non se ne sentivano da decenni. Per esempio la finale “Useless”, scheggia impazzita di furente hardcore di scuola Los Angeles. O la soffusa “A Prelude To…”. Purtroppo i tempi sono cambiati e un disco pur ottimo come questo non verrà mai citato tra i classici della band. “Saint Vitus” sarà una ripartenza o un addio? Solo il tempo potrà dirlo, certo è che dopo 40 anni di carriera poche band possono vantare una discografia di così alto livello.

CONCLUSIONI

Grazie alla rotazione dei cantanti il progetto Saint Vitus si è evoluto con grande dinamismo, rispetto ad un sound fatto di poche ma funzionali idee. La scelta di un disco rispetto ad un altro è prettamente soggettiva. I primi tre lavori hanno in aggiunta all’aspetto musicale anche un valore storico ed è per questo che inevitabilmente finiscono sul podio.
Nell’articolo non sono citati i dischi dal vivo. Ce ne sono una manciata: il classicissimo “Live” (1990), “Marbles In The Moshpit” (2012), “Live Vol.2” (2016).

1 – Born Too Late
2 – Saint Vitus
3 – V
4 – Hallow’s Victim
5 – Die Healing
6 – Mournful Cries
7 – Saint Vitus 2019
8 – C.O.D.
9 – Lillie: F-65

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